Gli ultimi dati trimestrali pubblicati il 16 luglio scorso vedono la Cina in lenta ripresa, con un leggero avanzamento del settore manifatturiero dopo sei mesi di rallentamento e la promessa da parte del governo di continuare lungo la strada delle misure mirate per sostenere i settori in maggiore difficoltà. Che cosa può significare la ripresa cinese per l’economia italiana, in questa fase? E quanto conta l’Italia per la Cina nello scacchiere internazionale? AgiChina lo ha chiesto ad Alberto Forchielli, managing director di Mandarin Capital Partners, che ha fondato nel 2006.
Forchielli mostra un certo scetticismo sulla possibilità che l’inizio della ripresa cinese possa concretizzarsi in maggiori opportunità per l’Italia. “Noi sostanzialmente esportiamo per il 50% macchinari – quindi siamo molto legati all’investimento manifatturiero – e poi esportiamo moda, quindi siamo molto legati ai consumi di lusso. Diciamo che i settori per noi trainanti non sono proprio centrali in quest’ultima manovra del governo per ridare fiato all’economia. È un po’ fuori obiettivo, dal nostro punto di vista”, spiega Forchielli. A complicare i rapporti tra Italia e Cina c’è poi una tradizionale diffidenza italiana nei confronti della Cina, in parte dovuta alla natura industriale del nostro paese, che ha subito molto la concorrenza cinese degli ultimi decenni; ma in parte dovuta anche ad alcuni segnali che non hanno fatto bene all’immagine della Cina, come la truffa multi-milionaria della Suntech in Puglia nel 2012. “Non c’è da meravigliarsi se l’opinione pubblica italiana ha un feeling di non estrema simpatia per la presenza cinese” commenta il managing director di Mandarin Capital Partners.
Ancora più sferzante il giudizio sui porti italiani, che non interessano più ai cinesi, attratti dal Pireo. “Non esiste una speranza” è la sentenza di Forchielli, che spiega: “Queste speranze in me erano morte nel 2006. Le ho aperte e chiuse nel giro di dodici mesi, quando mi sono reso conto della consistenza dei nostri porti”. Forchielli è scettico anche su possibili effetti positivi per l’economia italiana del processo di internazionalizzazione del renminbi. “È bene che succeda: sono favorevole. È un’ulteriore valuta alternativa, ma per l’Italia non significa niente di particolare”. Ma in un quadro di sostanziale distanza su molti punti tra Italia e Cina, ci sono anche momenti positivi, come l’accordo tra Shanghai Electric e Ansaldo Energia, che Forchielli definisce “sacrosanto”.
Il programma di urbanizzazione non è molto import-driven: è un’urbanizzazione massiva e l’offerta è quasi tutta locale. Difficilmente vedremo un grande contributo diretto alle importazioni da un processo di urbanizzazione. Lo stesso vale anche per i progetti di grandi infrastrutture: fanno un sacco di treni e un sacco di metropolitane. Possiamo fare il segnalamento, ma sulle infrastrutture siamo fuori: lo siamo sempre stati e non rientriamo certo adesso. Non è che questi nuovi investimenti infrastrutturali o anche urbani possano dare fiato a un grande boom di importazione. Anzi, con il tempo, i beni importati saranno sostituiti dai beni prodotti localmente. In fondo, il treno ad alta velocità è cinese, con tante componenti occidentali o giapponesi, che con il tempo, però, vengono sostituite. La domanda pubblica non vede le imprese straniere privilegiate. Sono abbastanza neutrale su questo. La domanda per le imprese straniere si ha nei beni di capitale di alta qualità e nei consumi certificati. Ovviamente la Germania ha sempre prodotto i capital goods, soprattutto componenti e macchinari: la stessa cosa che facciamo noi. In un piano di urbanizzazione e infrastrutture, finché non riparte l’investimento industriale in modo massivo, non ci sarà spazio per noi. E devono anche ripartire i consumi di lusso che in questo momento sono abbattuti dalla lotta alla corruzione, e quindi sono in calo, in Cina.
Io credo che la Cina voglia convenire sul Bit (Business Investment Treaty, ndr) che apre e facilita ulteriormente gli investimenti reciproci. Non ci sono grandi temi con l’Europa: il riconoscimento dell’economia di mercato non avverrà; l’embargo sul militare non verrà certamente tolto. Sul Bit che si sta negoziando si sono fatte alcune riunioni. I cinesi potrebbero avere qualche interesse a chiuderlo in fretta, ma è un interesse moderato. Quello che vogliono dall’Europa già ce l’hanno. I cinesi gradiscono un’apertura ufficiale sugli investimenti in Europa che non riescono ad avere dagli Stati Uniti e che probabilmente mai avranno. A parte questo, non ci sono temi particolari sul tavolo.
Gli americani insistono sul discorso che lo yuan è sottovalutato: secondo me lo yuan non è sottovalutato. Dissento dalla linea americana. Certo, è molto meglio avere il renminbi flessibile, ma non dobbiamo farci illusioni che possa essere soggetto a grandi rivalutazioni. Nessuno sospetta grandi rivalutazioni della valuta da uno yuan flessibile. E comunque, i cinesi faranno in modo di liberalizzare la moneta quando saranno sicuri che non schizzerà verso l’alto. Mi aspetto il giusto: non dobbiamo farci illusioni. In questo momento mi va bene anche uno yuan che oscilla in una banda.
In teoria si dovrebbero abbattere i costi di transazione. Si dovrebbe avere un cambio diretto euro-yuan e si dovrebbe avere accesso alla moneta cinese a costi inferiori e con più facilità. Quindi possiamo aspettarci un aumento nel volume degli scambi, anche se non è detto che avvenga in export. Potrebbe, invece, aumentare l’import: ci andrei molto cauto. È un aspetto molto positivo nel mondo finanziario, però l’Italia non è nessuno nel sistema finanziario. Non possiamo avere grandi vantaggi. Ha molto significato per Londra che diventerà la piazza finanziaria di eccellenza per lo yuan offshore in Occidente, e che è piazzata per capitalizzare su questo. Noi no. Prima Londra, e poi al limite Francoforte dove c’è la sede dell’euro, mentre la Gran Bretagna è ancora sul pound. Però al di là di Londra, Francoforte e in parte Lussemburgo, non vedo grandi benefici: perché la diminuzione dei transaction costs aumenterà gli scambi. E questo potrebbe anche accelerare il nostro deficit nei confronti della Cina.
Sono due cose separate. L’accordo tra Shanghai Electric e Ansaldo è sacrosanto, perché i cinesi non hanno tecnologia sulle turbine a gas e Ansaldo è l’unica al mondo che gliela può dare. Ansaldo, però, ha bisogno di grandissimi investimenti per migliorare la tecnologia, che è una vecchia tecnologia Siemens, e non ha i soldi e solo con i capitali cinesi può farcela, per cui il matrimonio sulla carta è ottimo. Bisogna stare attenti che tutto lo sviluppo delle nuove generazioni di turbine non venga fatto in Cina, perché a quel punto, una volta che viene data la tecnologia, noi chiudiamo la fabbrica di Campi. Vedo positiva anche l’ascesa di State Grid in CDP Reti perché i cinesi per entrare hanno dovuto strapagare e i cinesi quando investono in Occidente o comprano carri rotti che nessuno vuole, oppure strapagano le cose buone, come in questo caso. Hanno fatto l’offerta migliore e sono contento che ci siano, e che la nostra Cassa Depositi e Prestiti incassi dai cinesi un prezzo superiore rispetto a quello che avrebbe potuto incassare da altri concorrenti. Sotto il profilo finanziario sono quelli che pagano di più, quindi bene. Però, non vedo grandi sinergie industriali.
Versione abbreviata di un’intervista pubblicata con il titolo “Per l’Italia conta poco la ripresa cinese”, in AGIChina24, 18 luglio 2014.
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