Nicoletta Ferro (a cura di), Sviluppo sostenibile e Cina. Le sfide sociali e ambientali nel XXI secolo, Roma, L’asino d’oro edizioni, 2014
Tutti noi sappiamo che l’interrogativo principale sul futuro della Cina riguarda la sostenibilità del suo modello di sviluppo, che ha privilegiato l’aumento del Pil senza preoccuparsi troppo dell’efficienza complessiva del sistema economico e della sua riproducibilità nel tempo. Meno note sono invece le iniziative intraprese dal governo cinese per cercare di porre rimedio alle distorsioni provocate da trent’anni di turbo-crescita, spesso ricercando un sottile e difficile equilibrio tra le esigenze di creazione di ricchezza e di mantenimento della stabilità politica. Ben venga quindi il volume a cura di Nicoletta Ferro (ricercatrice presso l’Università Bocconi), che grazie al contributo di accademici, professionisti, giornalisti e manager, sviscera in dodici agili capitoli (rifuggendo da quella “narrazione degli eccessi” che caratterizza le notizie occidentali sulla Cina, p. 4), il complesso tema della sostenibilità nei suoi variegati aspetti. Il libro è un vero e proprio “fermo immagine” (p. 199) della situazione e si concentra su tre macro-aree: il paradigma politico della sostenibilità, le grandi emergenze ambientali, e il ruolo delle imprese. I temi si intersecano in molteplici incroci, rendendo il testo complessivo un gioco di continui rimandi, e di spunti per approfondimenti trasversali. Il concetto di sviluppo sostenibile, definito dal rapporto Brundtland della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (1987) come “uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”, è il filo conduttore dei singoli capitoli, che analizzano la responsabilità sociale d’impresa, l’emergere di una nuova società civile, l’evoluzione del sistema giuridico, la politica in materia di cambiamento climatico, la questione energetica e quella alimentare, lo sviluppo urbano e le risorse idriche, il business dell’inquinamento, gli investimenti sostenibili (sia finanziari sia nelle catene del valore), i nuovi assetti del mercato del lavoro. Nel libro, molto ricco di dati, informazioni, riferimenti giuridici e storici, si trova conferma della serietà – al di là della semplice retorica dei documenti ufficiali – della dirigenza cinese nell’affrontare gli snodi critici del sistema economico, tenendo presenti due condizionamenti strutturali: la gravità dei problemi, e la necessità di difendere il sistema leninista a partito unico. Non c’è dubbio che il compito con cui si confrontano i quadri governativi è una sfida “da fare tremare le vene e i polsi”, a cominciare dal disastro ambientale: la Cina è il principale responsabile delle emissioni mondiali di gas serra (anche se a livello pro capite il primato spetta ancora agli Stati Uniti); l’energia elettrica per due terzi è generata da centrali a carbone (il ricorso al gas da scisto potrebbe diminuire la dipendenza dal carbone, ma potrebbe altresì aggravare la crisi idrica); con un quinto della popolazione mondiale, la Cina “dispone solo del 12% delle risorse idriche a uso domestico del pianeta” (p. 92); solamente il 7% della terra è coltivabile (e un sesto di essa risulta inquinato), mentre il 27% è soggetto a desertificazione.
La necessità di mantenere il controllo sociale in un sistema autoritario a crescita economica continua limita il dispiegamento di forze che potrebbero invece favorire il riequilibrio verso una maggiore sostenibilità. Ad esempio, la responsabilità sociale d’impresa è ancora concepita essenzialmente come filantropia, ed è caratterizzata da un approccio top down, e non dal basso. Come ricorda Alessandra Spalletta, in Cina “la presenza del passato impregna il presente”, anzi “la Cina dell’oggi è una replica del passato, dove s’insinuano segnali di cambiamento” (p. 24): non c’è dubbio che i migranti cinesi vivano mediamente nelle città in condizioni migliori dei loro omologhi degli slum latinoamericani, o africani, ma le limitazioni dei loro diritti risalgono a un’antica necessità di controllare i movimenti interni della popolazione.
Andrea Enrico Pia, nel suo interessante saggio antropologico, rivela come in una contea dello Yunnan la gestione partecipata dell’acqua, che assegnando ai contadini la responsabilità dell’uso della risorsa idrica dovrebbe, in teoria, limitarne gli sprechi, non funziona in tal senso poiché le pratiche collettive, in effetti, “hanno come interesse principale assicurare la distribuzione equa del bene”, in conformità al retaggio socialista. L’intervento di Ivan Franceschini, da anni attento osservatore del mondo del lavoro in Cina, evidenzia il dilemma di un diritto del lavoro sempre più attento (sulla carta) alle esigenze del lavoratore, e di una realtà di diffuso sfruttamento della manodopera: “a dispetto di tutte le consultazioni pubbliche e aperture, il diritto del lavoro cinese rimane essenzialmente il frutto di un’attività legislativa condotta dall’alto” (p. 196).
Tutto è funzionale allo sviluppo macroeconomico, in linea con quanto il Partito ha deciso nel 1978: se si registra un aumento salariale, ciò non è “tanto una conseguenza dell’attivismo dei lavoratori, quanto uno strumento strategico adottato dalle autorità cinesi per assicurare un riaggiustamento macroeconomico” (p. 197-198).
L’impressione generale che si ricava dal volume è che la sostenibilità riguardi in primo luogo il binomio costo del riequilibrio economico/costo del controllo politico, in una dialettica sempre più onerosa da governare in presenza di attori e interessi così plurali. Forse ha ragione Nicola Aporti quando nel capitolo sulla sicurezza alimentare rivela tracce nella nuova filosofia di produzione agricola di un “ritorno ai principi taoisti e confuciani”, di “un ritorno all’uomo come fine” da cui “ripartire”: “il governo cinese si è rivelato maestro nel raggiungere obiettivi molto ambiziosi di ingegneria economica e sociale. Il pezzo che manca ancora è quello di un’educazione a valori civici ed etici troppo spesso sacrificati in nome di una crescita frenetica, ma che ora iniziano a essere rivendicati da una fetta sempre più larga della popolazione” (p. 122). Non ci resta che formulare gli auguri più sinceri: è in gioco davvero il futuro di tutti noi.
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