Nel maggio 1975 la Comunità europea riconobbe ufficialmente la Repubblica popolare cinese a seguito del disgelo delle relazioni tra Washington e Pechino avvenuto qualche anno prima con il viaggio del presidente statunitense Richard Nixon in Cina. All’epoca, la notizia del riconoscimento diplomatico tra Bruxelles e Pechino non fece le prime pagine dei giornali. La Comunità europea stava muovendo i primi passi, soprattutto in ambito economico, e la politica estera era ancora di esclusiva competenza dei paesi membri. La Cina, a sua volta, era un paese povero e in preda alle lotte di potere per la successione a Mao che, già malato, morirà nel settembre del 1976. Non c’è pertanto da stupirsi se i commentatori del tempo non diedero particolare risalto all’evento, considerandolo piuttosto un’appendice del più ampio riposizionamento della Cina all’interno della strategia globale degli Stati Uniti e dei loro alleati europei volta al contenimento dell’Unione Sovietica.
La fine della guerra fredda, l’ascesa economica della Cina e l’allargamento della Comunità europea a nuovi membri e la sua trasformazione in Unione europea hanno aperto nuove possibilità allo sviluppo delle relazioni Europa-Cina. In particolare, il partenariato strategico siglato nel 2003 ha avuto importanti implicazioni internazionali. Da quel momento, gli Stati Uniti hanno cominciato a seguire con attenzione – e talvolta con apprensione – lo sviluppo delle relazioni sino-europee. Basti pensare alle recenti critiche di Washington verso i quattro grandi paesi della Ue – Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia – per aver aderito in qualità di soci fondatori alla nuova banca di sviluppo promossa dalla Cina, la Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib).
Viene pertanto da chiedersi che cosa abbia contribuito a far sì che nel giro di 40 anni le relazioni sino-europee siano diventate cosi strategicamente importanti e quale potrebbe essere il futuro di questo partenariato nel nuovo ordine globale post-americano.
Nel 1995 la Commissione europea pubblica il primo di una serie di paper interamente dedicati alla Cina. Nel documento vengono gettate le basi di quel particolare approccio verso Pechino – il cosiddetto constructive engagement – che nonostante sia stato ridefinito semanticamente varie volte nel corso degli anni, rimane tuttora il fondamento della prospettiva attraverso la quale l’Europa guarda alla Cina. Alla base dell’approccio europeo c’è un sostanziale interesse – se non proprio entusiasmo, soprattutto negli ambienti imprenditoriali – per il mercato cinese e le sue grandi opportunità a cui si accompagna l’esplicita volontà, da parte delle élite europee, di giocare la carta cinese in chiave multipolare per aumentare il peso internazionale della Ue.
Tale approccio è basato su una chiara divisione del lavoro tra Bruxelles e le capitali nazionali: da una parte ci sono i paesi membri della Ue impegnati a promuovere il proprio interesse nazionale, cosa che li porta, spesso, ad evitare di sollevare argomenti controversi con i dirigenti cinesi per paura di mettere a repentaglio eventuali contratti e l’acquisizione di quote di mercato nel grande paese asiatico. Dall’altra, la Commissione europea – e dal 2010 il servizio esterno comune (l’European External Action Service) – sono impegnati non soltanto a fornire un quadro normativo per la promozione delle relazioni bilaterali, ma anche a mantenere viva un’attenzione critica riguardo la situazione dei diritti umani e della democrazia in Cina, attraverso il dialogo politico annuale con Pechino. Questo approccio permette così di soddisfare sia le esigenze di una parte dell’opinione pubblica europea critica nei confronti del regime cinese, sia gli interessi economici dei governi. Su questo punto, gli Stati Uniti hanno comunque – e sovente – criticato l’approccio europeo, ritenuto troppo accomodante verso la Rpc.
A questa modalità d’interazione costruttiva della Ue, la Cina ha risposto in maniera alquanto pragmatica attraverso una duplice strategia: da una parte Pechino ha tratto profitto delle divisioni tra i paesi membri della Ue per ottenere vantaggi sia economici che politici, arrivando talvolta a minacciare di ritorsioni commerciali quei paesi membri della Ue che avessero criticato apertamente la situazione dei diritti umani o il cui governo avesse incontrato il Dalai Lama. Allo stesso tempo, Pechino ha appoggiato appieno il processo di integrazione europea, nella speranza di fare di un’Europa più forte e unita sul piano economico e politico un elemento cardine di quell’ordine multipolare che è l’obiettivo della politica estera cinese fin dal 1949. Questa doppia linea d’azione verso l’Europa, lungi dall’essere contraddittoria, ha portato grandi benefici alla Cina. Soprattutto il secondo aspetto – l’appoggio al processo d’integrazione europea – ha fatto sì che la Cina fosse presente quando, in vari momenti della sua storia recente, l’Europa ha avuto bisogno di sponde esterne per far avanzare iniziative che non incontravano il pieno supporto (per non dire l’opposizione) dell’alleato americano. Questo è emerso in tutta evidenza negli ultimi anni, quando l’Europa ha deciso di diventare più autonoma da Washington in campo politico, tecnologico-militare e monetario.
Dalla metà degli anni Novanta, quando gli europei decisero di riorganizzare la loro industria aerospaziale e della difesa – operazione che portò alla nascita di società quali Airbus (civile) ed Eads (difesa) e di progetti quali il sistema satellitare Galileo – la Ue ha trovato nella Cina un osservatore attento ed un partner interessato alla promozione di tali dinamiche, al contrario degli Stati Uniti che vi vedevano invece una sfida alla propria supremazia globale. Questo processo è culminato nell’ottobre del 2003, quando Rpc e Ue siglarono un partenariato strategico e adottarono una serie di iniziative dal forte contenuto politico. Innanzitutto, le due parti si accordarono sui termini dello sviluppo congiunto di Galileo, il sistema di navigazione satellitare europeo. A fianco di una maggiore cooperazione nel settore aerospaziale, vennero gettate le basi per il miglioramento delle relazioni nel campo della sicurezza e dell’industria della difesa. A tal fine, alcuni grandi paesi europei proposero di iniziare le discussioni sulla revoca dell’embargo sulla vendita di armi alla Cina. Quest’ultimo, adottato nel 1989 in seguito alla repressione del movimento a guida studentesca di Piazza Tian’anmen, è sempre stato considerato dai dirigenti di Pechino come un affronto alla dignità della Cina.
L’orientamento di alcuni grandi paesi europei (Germania e Francia in testa, ma anche Italia e Spagna) e della Commissione europea dell’epoca, favorevoli alla revoca dell’embargo, fu percepito a Pechino come l’inizio di una nuova fase nelle relazioni politiche con l’Europa, un orizzonte che avrebbe dato significato strategico a un interscambio commerciale in continua crescita. Proprio in quegli anni – in particolare nel 2005, a seguito dell’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale – la Ue diveniva il più importante partner commerciale di Pechino, mentre la Cina si posizionava come secondo più importante partner commerciale di Bruxelles, subito dopo gli Stati Uniti.
Il partenariato strategico siglato nel 2003 rimane tuttora l’ultimo grande traguardo politico raggiunto nella storia recente delle relazioni sino-europee, suggello di un momento in cui l’Europa seppe pensare la Cina oltre alla mera dimensione economicocommerciale. E questo si deve anche – e soprattutto – al contributo di eminenti personalità italiane, a cominciare da Romano Prodi, presidente della Commissione europea negli anni 1999-2004.
La portata strategica del partenariato Ue-Cina non è limitata alle questioni tecnologiche e della difesa – pure importanti – ma ha coinvolto anche l’euro. Nell’autunno del 2003 ci fu, infatti, un accordo tra gli europei e la Banca centrale cinese che portò Pechino a diversificare il paniere di riserve in valuta straniera, aumentando in maniera graduale ma costante, negli anni a venire, l’esposizione verso la moneta unica europea e diminuendo allo stesso tempo quella verso il dollaro. Si tratta di un processo che ha avuto importanti risvolti politici durante la recente crisi dei debiti sovrani.
Al contrario di alcuni settori dell’establishment finanziario statunitense, che durante la recente crisi hanno speculato su una possibile disintegrazione della zona euro, la Cina ha continuato a sostenere – anche tramite interventi massicci sui mercati – la moneta unica europea. Da agosto 2011, quando Standard & Poor’s ha declassato il rating sovrano degli Stati Uniti, la Cina ha accelerato il processo di disinvestimento dal dollaro aumentando al contempo l’esposizione sull’euro, portando la quota delle proprie riserve detenute nella moneta unica europea dal 26-27% circa nel 2011, a circa il 33% agli inizi del 2015.
Durante il biennio 2009-2011 la Cina si è coperta dai rischi della crisi dei debiti sovrani in Europa diminuendo l’esposizione sui titoli dei paesi periferici ed investendo invece quantità crescenti delle proprie riserve valutarie in titoli dei paesi “core” della zona euro, anche se negli ultimi tempi – complice l’attivismo di Mario Draghi e l’inizio del quantitative easing da parte della Banca centrale europea – gli investitori istituzionali cinesi sono ritornati a comprare titoli dei paesi periferici, in particolare quelli di Italia e Spagna, che offrono rendimenti più interessanti rispetto ai Bund tedeschi.
La Cina sembra riporre una sostanziale fiducia nella capacità di ripresa della zona euro e nei tentativi di riforma portati avanti da alcuni governi, in particolare quello italiano e francese. Su questi paesi – in particolare l’Italia – si sono appuntati gli occhi di Pechino negli ultimi mesi. La Cina sta investendo massicciamente nelle aziende manifatturiere europee – ed in particolare in quelle italiane – con lo scopo di acquisire quel know-how e quelle tecnologie necessarie all’ammodernamento dell’industria cinese.
Alla fine del 2014 la Cina aveva investito circa 54 miliardi di dollari in aziende quotate nelle borse europee, piazzandosi al quinto posto per entità degli investimenti, subito dietro al Giappone. A fine gennaio 2015 la Banca centrale cinese attraverso il proprio braccio operativo – la State Administration of Foreign Exchange (Safe) – aveva acquistato circa il 2% in otto tra le più importanti aziende italiane quotate in Borsa, tra le quali si annoverano Fiat Chrysler Automobiles, Telecom Italia, Prysmian, Generali, Mediobanca, Saipem, Eni ed Enel. Il totale investito in Italia ammontava, a fine febbraio 2015, a circa 6 miliardi di euro, corrispondenti al 7% degli investimenti totali cinesi in Europa.
Il recente interesse per l’Italia e, più in generale, per il sud Europa rientra nel più ampio progetto di Pechino per lo sviluppo di una Via della Seta terrestre e di una Via della Seta marittima del XXI secolo, lanciato dal Presidente cinese Xi Jinping nel 2013. La Ue è oggi il primo partner commerciale di Pechino e il Mediterraneo, con al centro l’Italia, è considerato il naturale punto di arrivo della Via della Seta marittima.
L’aumento degli investimenti cinesi in Europa sta però anche intensificando la competizione tra i paesi dell’Unione. L’acuirsi della crisi economica e il bisogno di attrarre investimenti esteri ha indotto molti paesi a mettere l’accento sulle relazioni bilaterali con Pechino, piuttosto che lavorare per una strategia comune in seno alla Ue. Questo ha indotto alcuni paesi a creare fora di consultazione ad hoc con la Cina, al fine di promuovere la cooperazione economica e gli investimenti. Tra questi vanno annoverati i paesi del cosiddetto 16+1 (ovvero l’incontro annuale tra i 16 paesi dell’Europa centrale e orientale e la Cina), il gruppo dei paesi nordici e, in via embrionale, il gruppo dei paesi del sud Europa con alla testa Italia e Spagna. Questa parcellizzazione politica non può che fornire ai dirigenti di Pechino ulteriori elementi per dividere gli europei, e ciò nonostante il reiterato desiderio della Cina di un’Europa forte e unita che l’aiuti a porre limiti all’egemonia americana.
Occorre essere realisti. Nei prossimi anni il futuro del partenariato Ue-Cina passerà sì per Bruxelles, ma sempre più per le grandi capitali europee. Berlino è sicuramente diventata il punto di riferimento per i cinesi, mentre il ruolo di Londra e Parigi appare alquanto appannato negli ultimi tempi. Varsavia ha invece acquisito maggior peso in virtù dei legami storici con la Cina e della sua leadership nel gruppo dei 16+1. In questo contesto, l’Italia ha la possibilità di diventare un interlocutore importante per Pechino, anche in relazione alla nomina a capo della diplomazia europea di Federica Mogherini. C’è inoltre un crescente interesse per il governo Renzi e i suoi progetti di riforma del paese. Vi è, infine, la posizione geografica – al centro del Mediterraneo, punto di arrivo della Via della Seta marittima – che rende l’Italia particolarmente interessante agli occhi dei dirigenti cinesi.
La questione degli investimenti, incluso l’accordo sul trattato bilaterale Ue-Cina, sarà uno dei grandi temi in discussione nei prossimi anni. Una volta concluso, questo potrebbe infatti aprire la via a un eventuale trattato di libero scambio, sebbene su questo punto vi siano ancora sostanziali divergenze di vedute tra i 28 paesi membri della Ue. Infine, sarà sempre più importante la cooperazione tra Europa e Cina sulle grandi questioni internazionali, a cominciare dal cambiamento climatico e dalla riduzione dei gas a effetto serra, alle operazioni congiunte di peacekeeping e peacebuilding, alla stabilità in Africa.
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