Il 29 giugno 2015 potrà forse essere ricordato come uno dei giorni storici per lo sviluppo economico mondiale, una pietra miliare sulla via della riduzione della povertà dei popoli asiatici e perfino come l’inizio di un processo di contenimento del terrorismo medio-orientale. Quel giorno si sono infatti riuniti i rappresentanti dei paesi fondatori della Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Asian infrastructure investment bank – Aiib) per firmare gli accordi e gli articoli associativi del nuovo colosso, ideato e guidato dalla Cina, le cui attività operative si prevede abbiano inizio entro la fine dell’anno. Da gennaio 2016, quindi, potrebbero partire i primi investimenti in infrastrutture di cui l’Asia (e non solo) ha così impellente bisogno. Certo si tratta di una prospettiva ancora incerta. Alle dichiarazioni ambiziose devono infatti seguire fatti concreti.
La Aiib non ha ancora cominciato a operare, tanto meno a investire, ma le polemiche sono già vivacissime. Molte appaiono tutto sommato sterili e dettate da considerazioni geopolitiche, quegli stessi fattori che hanno portato il Giappone e gli Stati Uniti – unici tra i paesi più importanti – a non far parte della nuova banca. Persino Taiwan si è mostrata interessata e probabilmente vi accederà una volta trovato un accordo con Pechino sul nome da usare, unico vero ostacolo politico (Pechino non vuole dare alcuna patente di statualità a quella che considera una provincia ribelle). Molti commentatori hanno criticato la scelta degli Stati Uniti di non partecipare e perfino di far pressione sugli alleati europei affinché non aderissero al progetto, una mossa rivelatasi un boomerang diplomatico quando Regno Unito, Germania, Italia, Francia e vari altri, in sequenza, hanno presentato domanda di ammissione alla costituenda banca. Si è parlato molto della governance della Aiib e del presunto diritto di veto da parte della Cina come due dei motivi fondamentali del rifiuto di Stati Uniti e Giappone. Motivi che però non appaiono condivisibili: vediamo perchè.
In primo luogo, la Cina potrà esercitare un potere di veto solo sulle decisioni strategiche della Aiib, non su questioni operative. L’azionariato della Aiib e i poteri di voto dei singoli paesi membri sono illustrati nella Figura 1, secondo quanto riportato negli Articles of agreement della banca. Il capitale azionario della banca è costituito da un totale di un milione di azioni, suddivise in tre categorie: basic, share e founding member. Le basic shares costituiscono il 12% del totale delle azioni e vengono assegnate in misura uguale a tutti i 57 paesi fondatori, senza tener conto del contributo economico di ciascuno di essi. In modo egualmente paritario, a ogni paese fondatore vengono assegnate 600 azioni di tipo founding member, per un totale pari al 3,4% dell’azionariato totale. Il rimanente 84,6% delle azioni viene invece assegnato in proporzione al contributo economico di ciascun paese, la cui proporzione è indicata nella prima colonna della Figura 1. Nel caso dell’Italia, per esempio, il contributo sarà pari al 2,6% del capitale (2,6 miliardi di dollari), cui corrisponde un potere di voto del 2,5%: praticamente il peso economico e il peso decisionale sono identici. Non così nel caso della Cina che, sebbene contribuisca al capitale per più del 30%, avrà un potere di voto pari al 25,9%. Tale differenza è dovuta alla distribuzione non proporzionale al capitale delle altre due categorie di azioni.
La Cina mostra dunque una certa tendenza all’eguaglianza tra i 57 paesi, accettando un potere di voto al di sotto di quanto metterà sul piatto in termini finanziari – pur mantenendosi al di sopra della soglia del 25% che le consente di esercitare il veto su decisioni strategiche (per le quali è richiesta una maggioranza qualificata del 75% dei voti). Facendo un rapido calcolo, basterebbe – in teoria – l’ingresso di un nuovo paese (per esempio gli Stati Uniti) con un contributo minimo di 1,1 miliardi di dollari (1,1% del capitale) per portare la quota di voto della Cina al di sotto del 25%, supponendo che la Cina stessa non risponda con un ulteriore investimento. In realtà è presumibile che la Cina si manterrà al di sopra del 25%, così come è giusto che sia per il paese che ha ideato la Aiib e coinvolto gli altri partner internazionali secondo regole chiare già sin dall’inizio. I 57 paesi fondatori hanno accettato questa condizione. Gli Stati Uniti e il Giappone si sono finora rifiutati di farlo. Gli Stati Uniti, peraltro, pur essendo stati i principali critici della Aiib e della sua struttura azionaria e di corporate governance mantengono il potere di veto nel Fondo monetario internazionale e nella Banca mondiale, per effetto di una quota pari al 15,7%. La Cina stessa ha presso il Fondo e la Banca una rappresentanza di voto (3,8%) molto al di sotto del suo peso nell’economia mondiale. Nelle due istituzioni il peso della Cina è infatti inferiore non solo a quello degli Stati Uniti, ma anche a quello di Giappone (oggi la terza economia mondiale), Germania, Francia e Gran Bretagna.
Certo dubbi esistono sui criteri in base ai quali la Aiib selezionerà i progetti, sulle nazioni destinatarie dei contributi per lo sviluppo di infrastrutture, sulle eventuali condizioni politiche che la banca imporrà a tali paesi, su come verranno bandite le gare per l’assegnazione dei progetti, e sulle modalità secondo cui verranno assegnati tali appalti. La Banca mondiale ha spesso operato in paesi in via di sviluppo nel presupposto che gli aiuti economici sarebbero stati accompagnati da un miglioramento – o da promesse di miglioramento – delle condizioni politiche e di governance del paese destinatario. In altre parole, il paese che avesse desiderato ricevere aiuti economici dalla Banca mondiale o dal Fondo monetario internazionale avrebbe dovuto fornire garanzie di trasparenza nell’uso dei fondi e avrebbe dovuto assicurare l’attuazione di riforme economiche, talvolta anche politiche.
La paura è forse che la Aiib usi gli stessi criteri di selezione e i suoi investimenti servano a migliorare la governance dei paesi beneficiari? Il timore che serpeggia in Occidente è piuttosto che la Aiib chiuda un occhio, così come la Cina – con la sua China development bank – ha talvolta chiuso un occhio (o due) in Africa. Ma è proprio per evitare ciò che esiste un Board of directors della Aiib composto da 57 membri, che servirà da sistema di checks and balances per tenere entrambi gli occhi sempre ben aperti. Peccato che gli Stati Uniti abbiano deciso di non farne parte. I sostenitori della Aiib (e i detrattori della Banca mondiale), d’altro canto, mettono in evidenza come i programmi della Banca mondiale, proprio in Africa, non siano riusciti a ridurre il tasso di povertà, rimasto pressoché immutato al 50% in Africa subsahariana; anzi, il numero dei poveri in Africa è raddoppiato, mentre in Cina il tasso di povertà è passato dall’80% della popolazione a meno del 10% e il numero di poveri è stato ridotto di circa 400 milioni, come mostrato nella Figura 2, basata su dati forniti dalla Banca mondiale stessa.
Forse, così come evidenziato in uno studio di qualche anno fa, la Banca mondiale farebbe bene a curarsi di più della propria corporate governance e dei propri processi interni, piuttosto che imporre condizioni ai paesi recettori di aiuti. In tal senso, e in modo ironico, la Aiib farebbe bene a non avere le stesse regole di corporate governane della Banca mondiale
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