[LA RECENSIONE] Un tè con Mo Yan e altri scrittori cinesi

Marco Del Corona, Un tè con Mo Yan e altri scrittori cinesi, Milano: ObarraO, 2015

“Bere il tè è un’adorazione del bello in mezzo ai sordidi fatti dell’esistenza quotidiana”, scriveva il maestro zen Sen no Rikyu, vissuto in Giappone tra il 1521 e il 1591 e a cui si deve la riforma della cerimonia del tè. E prendere un tè con il libro di Marco Del Corona è una salutare pausa dalle cacofonie del circo mediatico del XXI secolo. L’autore, già corrispondente da Pechino per il Corriere della Sera, raccoglie in questo agile volume interviste e dialoghi – in parte già pubblicati sul quotidiano milanese, scritti tra il 2006 e il 2015 – con i massimi esponenti della letteratura cinese contemporanea, non tutti noti al grande pubblico occidentale. Scorrono quindi tra le nostre mani i volti degli autori considerati più vicini al regime comunista quali il premio Nobel per la letteratura Mo Yan, ma anche di Liao Yiwu, “il poeta fuggitivo” già internato in un campo di lavoro e ora residente in Germania, della popolarissima e milionaria scrittrice per ragazzi Yan Hongying (malauguratamente mai tradotta in Italia), e dello “Shanghai boy” Guo Jingming, un idolo dei giovanissimi, mentre risuonano tante altre voci che raccontano le piccole grandi storie nella Storia della Cina attuale e dei decenni appena trascorsi. La letteratura ha il privilegio di non dovere rincorrere – se non per manipolare per i propri fini – l’attualità, e il lusso di poter lasciare decantare gli eventi, per poi alzare lo sguardo e raccontarli in una prospettiva di ampio respiro, conferendo senso e misura alla quotidianità. Se la mancata riconciliazione con la memoria della rivoluzione culturale e del massacro di Tian’anmen (“i cinesi non sono in grado di ammettere i loro errori… [la madrepatria è] un posto in cui tutti mentono” – Bo Yang, p. 46) pesa come un macigno sulla coscienza collettiva cinese, e fa da sfondo a tante opere letterarie di successo di cui si parla nel testo, è il precipizio del senso morale in Cina che oggi sembra preoccupare maggiormente gli scrittori, come ad esempio Yan Lianke, autore di Servire il popolo! e del Sogno del villaggio dei Ding, entrambi banditi in patria. Vedono una Cina urbana dedita al profitto e all’idolatria del denaro mai separata dall’ansia del potere superiore, mentre lamentano l’assenza di autori in grado di descrivere il nuovo complesso fenomeno urbano. Tornano alle campagne per ritrovare l’essenza della Cina, le radici perdute (“… le radici materiali e visibili sono state spazzate via ormai completamente, ma le radici culturali sopravvivono ancora” – Han Dong, p. 63) e vi trovano un mondo confuso, attratto dalle sirene del successo ma in continua lotta contro la miseria. Gli autori più anziani lamentano l’assenza di giovani scrittori degni di questo nome, come ricorda Su Tong, l’autore del magistrale Mogli e concubine (da cui Zhang Yimou trarrà il film Lanterne rosse): “Non basta essere giovani, anche se si è influenti, vedi Han Han (romanziere e seguitissimo blogger, ndr). Quando uno scrittore giovane riesce a toccare la sua generazione e non quella dei padri, allora non ha davvero successo” (p. 84).

Lo sguardo lungo e profondo dei letterati ci suggerisce che studiare l’innesto del capitalismo su un sistema leninista in una società da secoli imbevuta di valori confuciani può rappresentare la vera chiave di lettura dell’universo sfaccettato della Cina contemporanea, per cui il popolo tutto trionfa o muore insieme: “la malattia dei cinesi e della società cinese è superiore ai mali dei singoli individui” (Yan Lianke, p. 89). L’intera società sembra proiettata in un mondo in cui ambizione e competizione sono gli unici driver dell’esistenza, a cominciare da ciò che viene richiesto dal sistema educativo – la stessa ambizione, in fondo, che già travolse in ben altro contesto le Guardie rosse: “Pensavano che se i padri avevano conquistato la nuova Cina, allora il Paese apparteneva a loro, che ne erano i figli” (Acheng, p. 38). L’ossessione per la performance scolastica (che ritroviamo anche in Corea e in Giappone) – rafforzata peraltro dall’universale deriva neoclassica propria anche delle scienze sociali – rischia di spegnere la creatività, e di creare tecnocrati privi di anima: “Lì, tra le pagine, non ci sono piccoli geni, ma solo bambini normali. … È perché nella mia infanzia sono stata libera, sana e normale se oggi… sono piena di energie positive. Senza un’infanzia felice, la vita spesso ha uno sfondo grigio e non si è capaci di trovare i veri valori dell’esistenza” (Yan Hongying, p. 96, corsivo nell’originale). E inoltre, ora che “l’educazione è trasformata in industria” (Lijia Zhang – come le piace farsi chiamare, all’occidentale –, p. 127) il sistema scolastico non svolge più nemmeno un ruolo di riscatto sociale e di riduzione delle disuguaglianze – al contrario, le perpetua.

Ricorda ancora Yan Hongying: “Da piccola, sarà perché eravamo tanti fratelli e i miei non potevano star dietro a tutti, guardavo le nuvole per ore. I ragazzini di oggi invece niente” (p. 92), in parte anche perché in tante città le nuvole sono scomparse dietro al grigio e uniforme cielo inquinato. E qui forse, abbandonando la rincorsa al potere e alla ricchezza così tipica dell’età adulta, bisognerebbe raccogliere questo invito e tornare all’infanzia perduta, o alla saggezza degli anziani, per ritrovare, con Charles Baudelaire, la vicinanza degli esseri umani e l’importanza delle storie al di là della Storia e al di là – appunto – dei sordidi fatti dell’esistenza quotidiana: “Chi ami di più, uomo enigmatico? Tuo padre, tua madre, tua sorella o tuo fratello?/ Non ho né padre, né madre, né sorella, né fratello./ I tuoi amici?/ Vi state servendo di una parola il cui significato mi è rimasto fino ad oggi sconosciuto./ La tua patria?/ Ignoro sotto quale latitudine essa sia situata./ La bellezza?/ L’amerei volentieri, dea e immortale./ L’oro?/ Lo odio come voi odiate Dio./ Eh! Cosa ami dunque, straniero straordinario?/ Amo le nuvole… le nuvole che passano… Laggiù… laggiù… le nuvole meravigliose!” (L’étranger).

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