Per lungo tempo il continente africano è stato rappresentato come un insieme di realtà politicamente instabili e, sul piano economico, fragilissime, prigioniere di un circolo vizioso fatto di poteri pubblici predatori, confitti latenti, povertà diffusa. I dati statistici relativi all’ultimo decennio segnalano che altri orizzonti sono possibili: l’Africa, soprattutto nella sua componente subsahariana, è oggi in molte sue parti una terra di opportunità economica. Nonostante un reddito pro capite tuttora basso, l’African Development Bank sottolinea il dinamismo della nuova classe media africana e alle cautele di vari analisti si contrappone l’emblematico cambiamento delle copertine di The Economist nell’arco di un decennio, da “The hopeless continent” (2000) a “Africa rising” (2011).
La presenza cinese nel continente africano, accresciutasi vistosamente da inizio secolo, è una delle “storie” più dibattute in questo contesto di trasformazione del profilo dell’Africa nella coscienza di investitori, governi e opinioni pubbliche. La rinnovata attenzione dell’Occidente per l’Africa si è accompagnata a un’allarmata denuncia dell’operato della Repubblica popolare cinese (Rpc). Secondo molti i cinesi si appropriano di risorse e nuovi mercati accrescendo il proprio peso politico e esportando pratiche perniciose. In particolare i finanziamenti sono erogati senza clausole di condizionalità che impongano il rispetto di elementari standard sociali, ambientali e di governance, che si considerano prassi acquisita a livello internazionale. Tutto questo – secondo quella che è stata definita una “mitologica narrazione” occidentale sul ruolo della Cina in Africa – avviene nel cortile di casa dell’Europa. Naturalmente Pechino rifiuta l’accostamento tra la propria politica estera e pratiche neo-coloniali e descrive, in modo altrettanto retorico, la partnership Cina-Africa come “mutualmente vantaggiosa”.
Nonostante si tenda spesso a raffigurarla come tale, l’Africa è tutt’altro che una realtà omogenea e “non è un paese”: diverse logiche politiche, traiettorie di sviluppo e relazioni di sicurezza caratterizzano non soltanto gli stati del continente, ma anche vasti territori su cui non governa effettivamente alcun potere sovrano. Una delle regioni al contempo più strategiche e instabili per il venir meno delle istituzioni statali è il Corno d’Africa, un’area storicamente problematica, oggi ancor più volatile a causa del confitto in Yemen. Lo scontro per procura che qui contrappone le monarchie sunnite e l’Iran sciita destabilizza ulteriormente un Golfo di Aden già fragile per il collasso della Somalia e il radicarsi nel suo territorio di gruppi islamisti militanti. In effetti, il Golfo di Aden è uno dei colli di bottiglia lungo la “Via marittima della seta”, che – passando per il Mar Rosso – collega le coste orientali della Cina al Mediterraneo.
In questo quadrante l’Etiopia, un paese legato all’Italia dai trascorsi coloniali, appare come un’ancora di stabilità ed è perciò oggetto oggi di particolare attenzione. Per Pechino, il cui interesse per l’Africa va oggi oltre le tradizionali esigenze di approvvigionamento di risorse naturali ed energetiche, l’Etiopia è un interlocutore di rilievo perché offre prospettive economiche incoraggianti, con possibilità di investimento interessanti nel settore agricolo e manifatturiero e costi della manodopera ridotti, gode di un relativamente elevato livello di stabilità politico-istituzionale, ha un profilo demografico che favorisce una crescente domanda di beni di consumo di massa nel medio periodo, e svolge un ruolo regionale e internazionale rilevante. Inoltre, la realizzazione di importanti progetti infrastrutturali nel settore dei trasporti e nell’idroelettrico è sintomo di un’accelerazione dello sviluppo. Operatori cinesi occupano un ruolo di primissimo piano nel settore dei trasporti: due opere importanti quali l’autostrada Addis Abeba-Adama e la metropolitana leggera a Addis Abeba sono state finanziate in larga parte attraverso prestiti concessi dalla Exim Bank e la loro costruzione e/o gestione è stata affidata a aziende cinesi. Nel settore idroelettrico un contributo rilevante arriva da realtà italiane, in primis la società Salini-Impregilo la quale sta realizzando la controversa Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) e Gibe III.
Le autorità di Addis Abeba guardano con interesse all’esperienza di sviluppo cinese. L’ascesa della Rpc e la sua crescente presenza in Africa sono stati esaltati in più occasioni dall’ex premier e uomo forte del paese Meles Zenawi.
La Cina si è affermata come un partner fondamentale per lo sviluppo economico della Repubblica federale democratica dell’Etiopia. Un indicatore dell’intensità della relazione bilaterale Cina-Etiopia è il tasso di dipendenza etiope dagli investimenti diretti esteri (Ide) cinesi, il cui peso sul totale degli Ide in entrata in Etiopia è passato dallo 0,2% del 2003 al 12,5% del 2012. Secondo l’agenzia di rating Moody’s, già nel 2010 la Rpc era la principale fonte di Ide per l’Etiopia, con il 64% degli investimenti nel settore infrastrutturale e il 26% in quello manifatturiero. I cinesi partecipano a progetti chiave per lo sviluppo del settore dei trasporti etiope e nel settore manifatturiero ci sono alcune “storie” emblematiche a cui i media internazionali hanno dato ampia visibilità: dall’insediamento del gruppo multinazionale Huajian Group nell’Eastern Industrial Zone, la zona economica speciale sino-etiope di cui si è già discusso su Africa e affari, alla scelta di altre multinazionali quali Heineken, Kfc e Unilever di spostare parte della produzione nel paese, scommettendo sul “next Made in China”. Altri indicatori – tra cui il numero di lavoratori cinesi ufficialmente residenti in Etiopia (tra i più elevati in Africa subsahariana e in forte crescita dal 2002), o il tasso di “dipendenza commerciale” dalla Cina, che pesava per poco meno del 20% sul totale degli scambi commerciali dell’Etiopia verso il mondo nel 2012 – confermano la consistenza della partnership economica tra Cina e Etiopia.
Anche l’Italia, dal 2007 in avanti, ha rafforzato la propria posizione economica nel paese, nonostante permanga lo storico primato dell’Africa mediterranea rispetto all’Africa sub-sahariana quale area di destinazione preferenziale degli Ide italiani in uscita: gli Ide italiani in Etiopia sono stati pari al 5,2% del totale nel 2009, per poi calare al 3,4% nel 2012 . Quanto ai flussi commerciali, nel 2013 l’Italia è risultato il sesto paese esportatore per l’Etiopia (il terzo in Europa) e il decimo mercato di destinazione dell’export etiope (primo in Europa). Sebbene osservatori qualificati confermino che il potenziale margine d’impatto che l’Italia ha sul mercato etiope è piuttosto elevato, i dati mostrano come il peso specifico dell’Italia nelle relazioni commerciali dell’Etiopia sia calato vistosamente, di fatto dimezzandosi tra il 2001 (8% sul totale dell’interscambio commerciale etiope con il mondo) e il 2012 (3,8%).
Al di là dei numeri attuali, il confronto tra Cina e Italia in Etiopia si gioca su un orizzonte di medio-lungo periodo. Pechino è un partner pragmatico, che opera a livello internazionale coerentemente con sue le priorità politiche ed economiche, le quali, unite a una capacità di analisi olistica del contesto internazionale contemporaneo, concorrono a definire il quid della politica estera (economica) della Rpc. Oggi la più essenziale fonte di legittimità per il Partito comunista cinese risiede nella sua capacità di proporsi come credibile portatore di benessere a settori sempre più ampi della società, obiettivo cui la politica estera del paese concorre in modo integrale. Evolutasi nel corso degli anni, quest’ultima si è dotata di una serie di nuovi strumenti – di cui alcuni con capacità finanziarie importanti, come ad esempio Exim Bank, China Development Bank, China-Africa Development Bank –, mentre in alcuni settori, come gli aiuti allo sviluppo, sono state implementate politiche con respiro strategico.
Al momento attuale l’azione cinese in Africa è da inquadrarsi, per un verso, nell’ambito della cosiddetta politica “Go Global” e, per l’altro, in quello del “partenariato strategico” della Rpc verso i paesi africani. Pechino si propone quale interlocutore naturale per l’Etiopia, che aspira ad accedere ai ranghi dei paesi a medio reddito entro il 2025. “Non si tratta – spiega il ministro consigliere dell’Ambasciata d’Etiopia a Roma – di politica, né di ideologia: è la diplomazia economica a determinare le modalità di interazione dell’Etiopia con il mondo esterno”. D’altra parte, però, come argomentato da alcuni critici, la razionalità economica, che si vuole “impolitica”, richiamata sovente dalle diplomazie di Cina, Etiopia e Italia, non è priva di connotati ideologici. Colpisce, ad esempio, come in alcune interviste condotte con i principali attori istituzionali del “sistema-paese Italia” appaiano pressoché assenti, nel nuovo discorso sull’Africa, i temi dei diritti umani, delle libertà civili e politiche, della corruzione nella vita pubblica.
Guardando all’Italia, la percezione diffusa è di una certa inconsistenza e confusione a livello strategico: il gap tra ambizioni sporadiche e risultati tangibili risulta evidente a un’analisi storica della presenza italiana in Africa fino ad oggi. Questo nonostante alcuni sforzi recenti siano stati accolti positivamente da media e business community italiana, pur con riserve – parafrasando un imprenditore italiano attivo in Etiopia – da sciogliersi dopo un’attenta disamina dei “fatti”. Spicca tra questi ultimi l’Iniziativa Italia-Africa, cornice di orientamento dell’attività economica e articolazione politica della proiezione italiana verso l’Africa, oltre che finestra volta a dare visibilità alle molteplici manifestazioni pubbliche o private dell’interesse italiano verso il continente. Il motto che presenta sinteticamente l’iniziativa al pubblico, “Riaccendere i riflettori sull’Africa”, richiama anche i nodi irrisolti del passato coloniale italiano, dichiarando di mirare a consolidare “antichi rapporti, aggiornandoli e inaugurandone di nuovi”. Ma al di là delle narrative il tema rilevante è un altro, soprattutto alla luce del crescente coinvolgimento cinese nel paese che pure sembra, per ora, non aver compromesso del tutto il vantaggio competitivo italiano: l’agire solipsistico e la scarsa sinergia tra istituzioni e imprese. Sono questi i due fattori che, al netto di un sostegno all’internazionalizzazione per ora limitato da parte di Simest e Sace, complicano la già difficoltosa conduzione quotidiana delle attività italiane in Etiopia e potrebbero in futuro minare la competitività a vantaggio di altri attori, tra cui la Cina, con tutte le conseguenze economiche e politiche che già si intravedono all’orizzonte.
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