Prima base militare all’estero: anche la Cina sceglie Gibuti

La Cina è ancora lontana dall’essere una superpotenza capace di proiezione di forza in tutti i quadranti del globo. Nonostante ciò, il 26 novembre scorso il portavoce del Ministero della Difesa nazionale della Rpc, Wu Qian, ha confermato che dopo aver acquisito la sua prima portaerei nel 2012, la Cina ha compiuto un altro importante passo verso la trasformazione in una potenza militare globale: sta ufficialmente negoziando con Gibuti la costruzione di una base militare nel Corno d’Africa. La nota ufficiale del governo cinese arriva pochi giorni dopo le dichiarazioni del generale americano David Rodriguez, secondo cui una base navale cinese sarebbe stata presto costruita a Gibuti – a Obock o vicino al porto di Doraleh. Questo sviluppo non giunge inatteso: che le cose si stessero muovendo era palese sin dalla visita del capo di Stato maggiore dell’Esercito popolare di liberazione (Epl), Fang Fenghui, nel paese africano a inizio novembre. Nell’ambito dei dialoghi bilaterali “track-1.5” condotti da T.wai con i propri partner cinesi questo specifico scenario era peraltro discusso come prospettiva realistica da almeno 24 mesi.

Come nel caso della portaerei Liaoning, la futura base ha un notevole valore simbolico. Tuttavia, resta ancora poco chiaro in che cosa esattamente queste “istallazioni protettive” (baozhang sheshi, 保障设施) dovrebbero consistere. Stando a quanto dichiarato da Wu, la base “servirà a fornire un migliore appoggio per le Forze armate cinesi impegnate nelle missioni di pace, nelle operazioni antipirateria nel Golfo di Aden, in missioni di ricerca e soccorso e così via. Aiuterà l’Epl ad adempiere ai suoi obblighi internazionali e ad avere un ruolo più attivo per quanto concerne la stabilità regionale e mondiale”. Xu Weizhong, esperto di Africa in forza al China Institutes of Contemporary International Relations (Cicir), ha osservato (in cinese) che, qualunque sia lo scopo preciso della base, essa è più che necessaria se la Cina intende diversificare la tipologia e ampliare la scala delle sue operazioni militari in zona.

La base dovrebbe anzitutto fungere da essenziale appoggio logistico in caso di evacuazione di cittadini cinesi, come già avvenuto nel recente passato. Il giornalista Xing Linan, in un articolo (in cinese) ripubblicato dall’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, offre altri spunti interessanti. In primo luogo, la base – o il “punto d’appoggio”, come si suole denominarlo in Cina, preferendo un profilo più basso – è una tessera del ben più ampio mosaico delle riforme che stanno trasformando l’Epl in una forza più agile ed efficace. Sicuramente ne beneficerà la Marina militare, ma un vantaggio ancor maggiore potrebbe derivarne all’Aviazione. Infatti mentre Forze di terra e Marina sono impegnate fuori dai confini cinesi da anni attraverso le missioni di pace e antipirateria, la componente aerea dell’Epl non ha mai avuto sostanziali occasioni di fare altrettanto. Nel caso in cui la base ospitasse aerei da ricognizione come gli Shaanxi Y-9 e Y-8, la Cina potrebbe, in un colpo solo, aumentare significativamente le proprie capacità di raccolta di informazioni nella regione e iniziare la rotazione dei propri piloti militari all’estero per far loro acquisire maggiore esperienza in operazioni reali. Come nel caso degli ufficiali delle Forze di terra e della Marina, che dopo essere stati impegnati in missioni all’estero sono stati promossi a posizioni di comando nelle migliori unità del proprio servizio, anche nel caso dell’Aviazione è probabile che i piloti selezionati per essere mandati all’estero vadano poi a formare un gruppo d’élite. Infine Xing aggiunge che la base potrebbe ospitare sino a 1.000 soldati, il cui nucleo sarebbe composto da veterani delle missioni di peacekeeping.

La conferma ufficiale dei negoziati in corso arriva in un momento critico per la presenza cinese in Africa e Medio Oriente, dopo l’uccisione dell’ostaggio cinese Fan Jinghui da parte dei militanti dello Stato islamico e il sanguinoso attacco terroristico all’hotel Radisson Blu a Bamako in Mali, durante il quale sono morti tre dirigenti del China Overseas Engineering Group. Nei giorni successivi a questi drammatici eventi sono apparsi numerosi articoli sui media cinesi, che hanno rilanciato il dibattito sulla sicurezza dei cittadini e degli investimenti cinesi in aree altamente instabili che era iniziato nel 2011 in occasione dell’evacuazione di circa 36.000 connazionali dalla Libia. Nonostante ciò è piuttosto difficile prevedere come una maggiore presenza militare all’estero possa effettivamente migliorare la sicurezza dei cittadini cinesi nella regione. Alludendo al fatto che il problema è più politico che di effettive capacità militari, Wang Hongwei, professore presso l’Università del popolo, ha dichiarato che “la Cina ha il dovere di proteggere i propri cittadini e i propri interessi nazionali da minacce e pericoli all’estero, ma il principio di non interferenza negli affari di altri Stati non verrà abbandonato facilmente”. Oltre a ciò l’uso dei caschi blu in questo tipo di situazioni non è cosa immediata e semplice da organizzare. Per esempio, anche nel caso in cui vi fosse stata l’autorizzazione da parte del comando della United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali (Minusma), i peacekeeper cinesi avrebbero comunque dovuto percorrere i 1.200 chilometri che separano le loro basi nel nord del paese dalla capitale. Qian Liyan, esperto di sicurezza ed ex “casco blu”, ha ipotizzato (in cinese) un maggiore impiego di compagnie di sicurezza private per garantire la protezione degli interessi e del personale cinese in aree instabili. Tuttavia questa è un’opzione che, per quanto discussa frequentemente in Cina, non sembra ancora essere considerata in maniera positiva da parte del governo cinese. Quando poi si parla nello specifico di compagnie di sicurezza cinesi è evidente che le autorità non sono disposte a consentire ai privati – per quanto sotto il controllo governativo – di utilizzare armi da fuoco, affiancandosi all’Epl in una posizione autonoma.

Eventualmente la base a Gibuti potrebbe essere vista come un potenziale trampolino per giocare un ruolo più attivo nella lotta al terrorismo. Anche se la Cina non si è finora impegnata in azioni militari all’estero contro organizzazioni terroristiche, media e accademici cinesi già da tempo discutono di questa possibilità in relazione all’eventualità di stabilire basi militari fuori dal territorio nazionale. Andrew Small, Wei Zhu e Eric Hundman hanno evidenziato come la Cina si sia già dimostrata disponibile a sostenere un approccio più robusto contro il cosiddetto Stato islamico. La risoluzione 2249 (2015) approvata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite il 20 novembre 2015, pur non citando espressamente il capitolo VII della Carta, può essere facilmente letta come un’autorizzazione all’uso della forza contro lo Stato islamico in Iraq e Siria. Anche se è estremamente improbabile che Pechino usi questo “biglietto per la Siria” – come è stata definita la risoluzione da parte degli internauti (in cinese) cinesi – la base a Gibuti e il voto a favore della risoluzione lasciano ampio spazio di manovra per il futuro.

In conclusione, con la base a Gibuti si apriranno nuovi importanti scenari per la diplomazia e le Forze armate cinesi. Data la natura principalmente reattiva della politica cinese in tema di coinvolgimento militare fuori dall’Asia, rimane difficile prevedere come cambierà il volto della diplomazia cinese in Africa e Medio Oriente. Eventi come quelli in Mali e Siria hanno sicuramente un peso nell’accelerare la transizione a un approccio più attivo. Solo una volta ultimata la costruzione della base sarà tuttavia possibile capire con maggiore precisione il tipo di operazioni che potranno essere da lì condotte.

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