I n un sistema internazionale contraddistinto da minacce ibride e multidirezionali, la Cina sta rielaborando il proprio concetto di sicurezza, esplorandone la natura polisemica. Nuove ambizioni di rango e crescente integrazione economica globale si fondono: la “grande potenza responsabile”, primo contributore di caschi blu per le missioni di peacekeeping, è così chiamata a ricalibrare la sua visione olistica, come esplicitato a partire dal libro bianco del 2013 su L’impiego diversificato delle Forze Armate della Cina.
Quest’evoluzione dottrinale trova manifestazione politica in un teatro marittimo impervio: il regional security complex di Aden. È in questo quadrante che Pechino sta sperimentando l’espansione del concetto di sicurezza, non più sola “difesa dei mari vicini”, ma anche “protezione dei mari lontani”, dove la sicurezza marittima diviene sicurezza energetico-economica, fino a comprendere la difesa dei lavoratori cinesi espatriati. Pertanto, nella subregione di Aden, le “operazioni militari diverse dalla guerra” – nel caso di specie peacekeeping, anti-pirateria, evacuazioni di civili – non sono semplici esercizi volti all’acquisizione di un’essenziale esperienza nella proiezione di forza militare all’estero, ma effettivi strumenti di difesa dell’interesse nazionale.
Il microcosmo sociale di Aden è vischioso e caratterizzato dal collasso delle sovranità statuali. Il regional security complex di Aden mette infatti in relazione la regione sudarabica e il Corno d’Africa: le dinamiche di sicurezza presenti in quest’area sono interrelate a tal punto da non potere essere analizzate separatamente. La crescente rivalità tra sauditi e iraniani in Yemen potenzia il legame geopolitico esistente fra Golfo di Aden e Golfo Persico/Arabico. L’interdipendenza fra i network tribali dello Yemen e quelli clanici della Somalia accentua l’entropia di quest’area, spingendo gli studiosi ad adottare un nuovo modello di analisi delle dinamiche locali, basato sulla transnazionalità dei flussi, in primo luogo umani. La Cina è fortemente interessata alla stabilità del regional security complex di Aden per almeno tre ragioni: i forti rapporti energetico-economici con il Golfo, la libertà di navigazione nello stretto del Bab el-Mandeb (e relativo contrasto alla pirateria), la proiezione economica in Africa orientale, anche mediante forme di diplomazia militare.
I fenomeni della globalizzazione e il relativo disimpegno statunitense in Medio Oriente hanno consentito a Pechino di rafforzare rapporti diplomatico-commerciali con le monarchie del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), anzitutto a tutela delle necessità energetiche interne: secondo la Energy Information Administration, nel 2014 il 26% del greggio importato dalla Cina proveniva da Arabia Saudita e Oman. L’Arabia Saudita, frustrata dal riavvicinamento fra Washington e Teheran su dossier nucleare e lotta al cosiddetto califfato, guarda sempre più a est per diversificare la propria rete di partnership internazionali. Riyadh, firmataria di un accordo di cooperazione sul nucleare civile con Pechino (2012), punta a incrementare le forniture militari e a rafforzare i legami con la Cina nel campo della sicurezza, pur rimanendo cosciente dell’indispensabilità dell’ombrello di difesa statunitense.
Anche con l’Iran Pechino coltiva una relazione stretta: l’obiettivo della diplomazia cinese è massimizzare i benefici dell’interazione parallela con le sponde rivali del Golfo, come testimoniato dalla compresenza di Arabia Saudita e Iran nella Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib). Dati i forti interessi energetici nella regione, la stabilità dell’area di Aden è essenziale: unità della Marina cinese sono qui dispiegate dal 2008 in missione anti-pirateria e la presenza di numerose operazioni internazionali (tra cui la Combined Task Force 151, Ocean Shield della Nato e Atalanta-Eunavfor dell’Unione europea) ha in effetti contribuito alla sensibile riduzione delle incursioni tra Aden e le acque somale. La condivisione degli obiettivi fra Usa, Nato, Ue e Cina ha qui permesso un gioco a somma positiva, evidenziato dal buon funzionamento del meccanismo Shade (Shared Awareness and Deconfiction). Nel novembre 2015 Cina e Nato hanno svolto nel Golfo di Aden le prime esercitazioni congiunte anti-pirateria.
L’impegno cinese a contrasto della pirateria offre anche nuove opportunità di proiezione economica in Africa orientale. Al di là degli investimenti in concessioni di terreni e risorse naturali, Pechino sta promuovendo iniziative economiche con signifcativi risvolti in campo marittimo, tese a potenziare le infrastrutture ferroviarie e portuali della costa africana, in chiave commerciale (si veda, ad esempio, la costruzione del porto di Lamu in Kenya). In questo contesto la Cina compete con Turchia, monarchie del Golfo, Iran e India.
Il confitto yemenita destabilizza tuttavia l’intero quadrante: nato come scontro interno fra centro e periferia, si è trasformato in epicentro della rivalità regionale fra Arabia Saudita e Iran. In questa cornice, la Cina ha da subito cercato di mantenere una posizione di equidistanza fra i patron sauditi e iraniani: Pechino ha votato la risoluzione n. 2216 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, che chiede il ritiro delle milizie sciite, sostenute da Teheran, dalle aree occupate, pur invitando Riyadh e Abu Dhabi a fermare i bombardamenti della coalizione sunnita. Spingendosi ai limiti del “coinvolgimento creativo”, la Cina ha avviato contatti diplomatici con Ansarullah (il movimento degli huthi, gli insorti sciiti zaiditi del nord) e, al contempo, ha dissuaso il Pakistan dall’intervenire militarmente, come invece richiesto dai sauditi. Anche sul caso del religioso sciita Nimr Al-Nimr, giustiziato dall’Arabia Saudita nel gennaio 2016, i cinesi hanno optato per un equilibrismo diplomatico: il vice ministro degli esteri Zhang Ming si è recato in entrambe le capitali rivali del Golfo, auspicando una de-escalation della tensione.
La scelta di Gibuti come sede della prima base militare permanente della Rpc all’estero rimarca la centralità del quadrante di Aden. Le due operazioni di evacuazione di lavoratori cinesi dallo Yemen effettuate dalla Marina militare di Pechino (122 cittadini imbarcati da Aden il 29 marzo, 449 da Hodeida il 30 dello stesso mese) hanno enfatizzato la necessità, a fronte di crescenti interessi economici, di un “appoggio logistico” nell’area. Stabilizzare la città yemenita di Aden, porto commerciale proteso su Corno d’Africa e Oceano Indiano, rientra dunque nell’orizzonte strategico cinese. Lo Yemen esporta circa 1,5 milioni di barili di petrolio ogni mese dal terminal di Masila (Hadramout), con principale destinazione la Cina: nel primo bimestre del 2015, l’import cinese di greggio yemenita è addirittura aumentato del 315% rispetto allo stesso periodo del 2014.
D’altro canto, le vie d’acqua che circondano lo Yemen si trovano nel mezzo della cosiddetta Via della seta marittima del XXI secolo, iniziativa centrale per la politica estera cinese delineata dal presidente Xi Jinping nel 2013, in parte per controbilanciare il “pivot to Asia” statunitense. Ecco perché la protezione di determinati mari lontani equivale, oggi, per la Cina, alla difesa dello stesso interesse nazionale. z
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