La vicenda del documentario cinese sull’inquinamento Qiongding zhi xia (穹顶之下) è nota. Conosciuto in Occidente come Under the dome, pubblicato online dalla giornalista Chai Jing il 28 febbraio 2015, ha grande successo di pubblico e sostegno istituzionale, ma dopo pochi giorni sparisce dai provider e dai media cinesi. Under the dome costituisce un oggetto mediale particolare: la tesi di una sua mera diffusione “virale” o “bottom-up” risulta infatti troppo semplicistica. La vicenda rivela invece i cortocircuiti di un sistema mediale non monolitico, dove le spinte contraddittorie di controllo centrale, marketisation e interazione social mostrano come la governance dei circuiti transmediali rappresenti una sfida anche per un sofisticato sistema autoritario.
Sotto il profilo del contenuto il progetto ha più di un debito con precedenti esperienze occidentali. Il titolo è ispirato dall’omonima serie televisiva statunitense del 2014 (tratta da un romanzo di Stephen King), assai popolare in Cina attraverso i servizi streaming di SohuTV. Il formato della messa in scena è invece ispirato ai Ted Talks, da cui Under the dome mutua la messa in scena minimale su palcoscenico, il ricorso a immagini integrative e la diegesi del pubblico in sala come marcatore di pathos. Inoltre, incardina il suo discorso patemicamente prendendo le mosse dalla maternità dell’autrice e dai suoi timori rispetto alla correlazione fra la precaria salute della piccola figlia e lo stato dell’ambiente cinese, narrazione ricorrente che fa da contrappunto ad affondi su temi specifici, tra cui il controllo delle emissioni delle autovetture, la preponderanza del carbone nel mix energetico cinese, la mancata applicazione delle norme sull’inquinamento. Quest’ultimo è messo a tema come “colpa collettiva”, da superare attraverso uno sforzo comune. L’intento di mobilitare la popolazione è però tutt’altro che esplicito: presentando il problema dell’inquinamento come una questione di carente applicazione delle normative a livello locale, necessità di innovazione tecnologica e modifica delle abitudini di consumo, il documentario risulta sostanzialmente in linea con gli sforzi del governo centrale.
Dal punto di vista produttivo Under the dome è, secondo l’autrice, autofinanziato, al costo di circa 1 milione di renminbi. L’insistenza sull’autofinanziamento è significativa: il progetto avrebbe potuto facilmente ottenere finanziamenti esteri, ma ciò lo avrebbe esposto a accuse di strumentalità a interessi stranieri.
Dal punto di vista distributivo, gli outlet iniziali sono stati essenzialmente due: gli importanti siti di video streaming Youku e Tencent Video, e soprattutto una pagina del Renminwang, il sito web del Quotidiano del popolo, che ha dedicato all’autrice anche un’intervista. La presenza in homepage del documentario si è protratta fino al 3 marzo (ossia fino alla sparizione del contenuto da tutti i media): cinque giorni di visibilità che hanno dato un enorme contributo alla sua circolazione. Da un lato essa è stata facilitata dal fatto che il documentario è in linea con gli interessi del governo centrale (o perlomeno di alcuni suoi settori); dall’altro, in un apparente paradosso, proprio il carattere controverso dell’opera è stato, nel panorama mediale contemporaneo, un valore aggiunto. Come gli altri media cinesi “in transizione” rispetto a un passato di stretta co-dipendenza dalla politica2 , il Quotidiano del popolo ha infatti subìto una spinta verso l’autosostentamento che, nel caso dell’online, richiede il ricorso a contenuti in grado di generare numerose visualizzazioni.
È evidente che per pubblicare un video così sensibile su un outlet politicamente centrale in Cina occorre superare un articolato sistema di filtri, in definitiva riconducibili al Zhongxuanbu, ossia al sistema del Dipartimento della propaganda. D’altra parte, secondo diversi commentatori, il Ministero dell’ambiente cinese era a conoscenza della lavorazione del documentario – se non l’ha monitorato direttamente: il ministro Chen Jining ha infatti ringraziato pubblicamente l’autrice in una conferenza stampa il 1° marzo. Attori istituzionali di primo piano hanno in sostanza sostenuto e veicolato su scala nazionale un contenuto accuratamente bilanciato, sotto i profili di produzione e contenuto, per essere il più allineato possibile ai discorsi del governo centrale, senza perdere di mordente presso il pubblico.
Nonostante queste accortezze l’impatto di Under the dome è stato del tutto inatteso: sugli outlet ufficiali le visualizzazioni hanno superato quota 300 milioni mentre, secondo alcune fonti, servizi di chat come Weibo avrebbero ospitato 280 milioni di tweet sul tema. In breve il documentario fa notizia anche sui media occidentali e il 1° marzo viene caricato su YouTube con sottotitoli non ufficiali in inglese. A questo punto scatta l’azione di controllo: dal 3-4 marzo partono gli inviti alla limitazione della promozione del filmato, per passare rapidamente alla rimozione del video dai principali provider, con contestuale cessazione della sua messa a tema – inclusa la rimozione di post su social media e forum – e al blocco dei risultati di ricerca relativi a parole chiave collegate al progetto. Le ragioni effettive di questa operazione sono oggetto di dibattito: come sottolineato in un’analisi dei tweet rimossi relativi a Under the dome, l’intento censorio ha riguardato soprattutto gli elementi relativi alle mobilitazioni popolari: smontato in elementi decontestualizzati, il documentario può essere infatti funzionale a discorsi (spesso solo abbozzati) di mobilitazione collettiva politica. Post relativi al film vengono legati a fotografe di proteste ad esso estranee, mentre migrazione e remix fanno sì che la mobilitazione, un elemento che nel testo non esisteva, acquisisca rilevanza nella messa a tema dello stesso, re-instradando il contenuto verso nuove audience e nuovi discorsi.
A sua volta, l’operazione di controllo viene reinserita nei circuiti transmediali: gli ordini esecutivi (più o meno verificabili, spesso trascrizioni di comunicazioni orali) vengono resi pubblici sui social media, insieme ad analisi che documentano la sparizione dei contenuti relativi a Under the dome dai motori di ricerca; tutti questi contenuti, tradotti, raggiungono gli spazi web occidentali, dove acquisiscono permanenza, alimentando familiari narrazioni sulla repressione della libertà di parola in Cina. Allo stesso tempo, in Cina e fuori, il lavoro è oggetto di critiche che ne contestano da un lato la caratura scientifica, e dall’altro i presunti obiettivi politici (in quanto lavoro asservito agli interessi di potenze straniere critiche verso la Cina) ipotizzando in maniera più o meno esplicita occulti moventi stranieri, in coerenza con il discorso cyber-nazionalista che da tempo rappresenta una delle dominanti del web cinese. Chai Jing, per parte sua, non ha più rilasciato alcuna intervista sull’argomento e si è sostanzialmente eclissata.
L’apparente schizofrenia relativa al caso in esame è il risultato dello scontro fra logiche non facilmente conciliabili nella governance del dinamico sistema mediale cinese. Oltre alla tensione fra logica di mercato e necessità di correttezza politica, il caso di Under the dome mostra come le possibilità di appropriazione, remix e re-routing dei social media (piattaforme a loro volta riconducibili a grosse imprese di interesse strategico per il paese) introducano variabili difficilmente controllabili. Resta da vedere come questa problematica sarà affrontata nel contesto delle innovazioni di questi sistemi di governance introdotte periodicamente dalle istituzioni.
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