Dal 2012 il Mali rappresenta uno dei fronti di conflitto aperti nel cuore dell’Africa, a ridosso della cosiddetta “periferia allargata” del continente europeo. Sotto i colpi di un’insurrezione tuareg-jihadista e di un colpo di stato militare, il Paese ha rischiato di trasformarsi in uno stato fallito, nonché in una delle principali fonti di instabilità del continente africano. L’intervento militare francese del 2013 e la firma degli accordi di Algeri nel 2015 avrebbero dovuto rappresentare due momenti fondamentali, a partire dai quali ricostruire l’ordine costituzionale e la pace in Mali. La persistenza di scontri e violenze – non solo nel nord del Paese, già epicentro della rivolta del 2012 – dimostrano tuttavia come il conflitto sia profondo e radicato. Gli attuali fallimenti delle iniziative di conflict-management affodano le radici nelle stesse dinamiche che hanno condotto alla crisi del 2012 e che non sono mai state pienamente comprese, o quantomeno adeguatamente trattate, dalla comunità internazionale. Ancora nel 2012, ad esempio, l’allora Segretario di Stato americano Hillary Clinton dichiarava che il Mali era, secondo i principali indicatori, sulla buona strada, finché un gruppo di soldati non si è impadronito del potere. Questa affermazione esprime bene l’idea che si era affermata sul Mali, presso la comunità internazionale.
Il Mali adottò un regime democratico all’inizio degli anni novanta, in piena “terza ondata democratica”. Da allora la democrazia maliana ha fatto segnare una serie di record positivi nell’ambito delle libertà civili e politiche, divenendo apprezzato simbolo del riscatto africano. Dopo il 2001, quando il Sahel emerse come uno dei fronti africani della guerra al terrorismo, il regime maliano, stabile e democratico, guadagnò ulteriore legittimità e sostegno internazionali. Ancora nel 2011 si potevano leggere report entusiasti, realizzati da organizzazioni quali la Banca Mondiale o Freedom House, decantare le qualità della democrazia maliana.
Secondo l’interpretazione dominante, quindi, le cause della crisi del 2012 sarebbero da attribuire a fattori esterni e contingenti. Da un lato, il Mali sarebbe una “vittima” del terrorismo islamico. Dai primi anni duemila AQMI (al-Qa’ida nel Maghreb Islamico), le cui origini sono da situare nella guerra civile algerina, e altri gruppi islamisti decisero di allargare verso sud la propria area di attività, divenendo una minaccia per il Mali e i suoi vicini. Creata una estesa rete di contatti e accumulato sufficiente potere, questi avrebbero deciso di appropriarsi direttamente del territorio sul quale si erano installati, al fine di dare vita ad un califfato islamico in terra africana.
Dall’altro lato, la guerra del Mali sarebbe una conseguenza imprevista dell’intervento in Libia e del crollo del regime di Gheddafi. Diverse centinaia di combattenti tuareg – popolazione di origine berbera presente in Nord Africa e Sahel – precedentemente al soldo del dittatore libico, avrebbero approfittato del caos nord-africano per rientrare in patria. Portandosi dietro armi ed equipaggiamento sottratti dai depositi libici, avrebbero lanciato una guerra destinata a “liberare” la loro terra natale, nota come Azawad e all’incirca corrispondente col nord del Mali. Questa seconda lettura degli eventi riprendava un tipico schema cognitivo applicato dalla comunità internazionale nei confronti dei conflitti africani, spesso letti come la conseguenza di odi atavici di natura etnica, mai ricomposti all’interno di strutture politiche moderne. La persistente fragilità della situazione dovrebbe dunque essere attribuita alla non completa eliminazione di quegli attori, jihadisti in primis, che hanno destabilizzato l’intera regione, e alle difficoltà nell’implementare l’accordo di pace raggiunto con le popolazioni del nord. Queste spiegazioni falliscono però nel cogliere le ragioni profonde della crisi.
Per comprendere le origini del conflitto, bisogna partire dal presupposto che il Mali ha avuto un regime molto meno virtuoso di quanto non sia stato raccontato nella narrativa internazionale. La duplice crisi del 2012 – ribellione nel nord e colpo di stato a Bamako – ha infatti costituito il culmine di un processo di dissoluzione dello stato causato da un complesso intreccio di dinamiche locali e transnazionali. Assumendo come momento di svolta l’inizio della presidenza Touré nel 2002, sono almeno tre i fattori che hanno generato la rottura del patto sociale su cui si era retta la democrazia maliana: le nuove forme assunte dall’esercizio del potere politico; le rotture tra il centro e le periferie del Paese; l’incidenza degli attori transnazionali, in particolare quella dei narcotrafficanti.
Giunto alla presidenza come indipendente e inizialmente privo del sostegno dei principali partiti, Touré ha inaugurato una pratica del potere ispirata ai principi della cooptazione e del consenso, conosciuta sotto l’etichetta di “unanimità”. Tra il 2002 e il 2012, il presidente è stato capace di assorbire nelle proprie fila molti dei principali esponenti dell’opposizione, silenziando così buona parte della dialettica politica. Questa strategia ha portato alla creazione di un sistema clientelare, fondato su scambio di favori e pratiche corruttive, che si è esteso all’intero territorio, coinvolgendo sindaci, imprenditori, capi tradizionali e capi fazione dei vari gruppi etnici, tuareg compresi. Rafforzando una tendenza già in atto fin dagli anni novanta, la presidenza Touré ha contribuito a trasformare la democrazia maliana in un’oligarchia di fatto, in cui poche migliaia di individui predavano e gestivano le scarse risorse nazionali, perpetrando a loro volta logiche clientelari di gestione del potere. Questo fenomeno ha finito col delegittimare l’intero sistema democratico, creando una profonda frattura fra le élite e la popolazione, resa evidente dal bassissimo tasso di partecipazione elettorale.
Dentro il sistema creato da Touré, la gestione delle regioni periferiche è stata spesso affidata a quegli imprenditori politici locali inseriti all’interno della rete oligopolistica al potere nel Paese. In alcuni casi questa nuova conformazione di potere ha rimesso in discussione ruoli e strutture tradizionali, mandando in crisi il fragile equilibrio che si era creato tra comunità e gruppi diversi, all’interno dello schema statale. Un chiaro esempio è dato dai cambiamenti intercorsi all’interno della società tuareg, il cui irredentismo – che affonda le radici nella storia e nelle manipolazioni identitarie di epoca coloniale – è stato in parte riattivato dalle lotte prodottesi all’interno della comunità stessa, per l’ottenimento di un potere locale ridiventato contendibile. Anche la gestione della sicurezza e dell’uso della forza ha seguito logiche alternative: nel corso degli anni duemila si è assistito ad una vera e propria esplosione del numero di milizie “volontarie”, più o meno ufficialmente legate al governo centrale, presenti in diverse regioni del Paese. A questi elementi si deve aggiungere l’assenza di un meccanismo codificato di redistribuzione delle risorse, che ha finito col marginalizzare ulteriormente aree già periferiche sia geograficamente che economicamente. Questi elementi si sono concentrati con particolare evidenza nel nord del Mali, senza però che la regione abbia rappresentato un’eccezione rispetto ad altre aree del Paese.
Proprio il nord è stato il principale teatro di penetrazione di alcuni gruppi transnazionali che hanno contribuito a disfare definitivamente il tessuto politico e sociale maliano. Oltre ai già citati gruppi jihadisti, il maggiore impatto l’ha avuto la ridefinizione dei percorsi di transito della cocaina sudamericana destinata al mercato europeo. I bassi costi di ingresso e una struttura istituzionale ed economica forgiata dal commercio e dal contrabbando trans-sahariani hanno trasformato l’intero Sahel in uno dei principali hub mondiali di passaggio della cocaina. Si calcola che dal 2002 il 30% di tutta la cocaina consumata in Europa sia transitata dall’Africa occidentale, generando un giro d’affari di non meno di 15 miliardi di dollari. Questo denaro ha alimentato e diffuso in maniera capillare la corruzione, già diventata sistemica sotto la presidenza Touré. Intere comunità hanno ridefinito le proprie attività economiche in funzione del commercio della cocaina, mentre le forze di sicurezza locali si trasformavano in organizzazioni al servizio del miglior offerente.
Nel corso degli anni duemila la comunità internazionale si è resa colpevole di aver sottovalutato la portata della crisi dello stato maliano. Questa stessa comunità internazionale sta oggi lavorando, nel tentativo di ricostruire una convivenza pacifica e uno stato funzionante in Mali. Le sfide restano però molte, ed estremamente complesse. Da un lato, i diversi attori internazionali presenti sul campo – dalle Nazioni Unite alle organizzazioni regionali africane, passando per Unione Europea o paesi come Francia, Cina o Algeria, fino alle principali ONG – non sono riusciti a dotarsi di un’unica agenda condivisa. Il Mali può essere piuttosto considerato come un palcoscenico su cui si stanno riproducendo quei rapporti di forza e quelle lotte di potere, che influenzano da sempre le relazioni tra Nord e Sud Globali e le politiche internazionali di state-building e conflict-management. Dall’altro lato, gli stessi elementi che hanno portato alla crisi del Mali – la gestione oligopolistica del potere, la corruzione, la penetrazione di narcotrafficanti e jihadisti, la delegittimazione della democrazia – sono ancora tutti presenti nel Paese. L’attentato che il 18 gennaio 2017 ha fatto quasi 80 morti a Gao, nel nord, ne è solo una parziale conferma. In un’area del mondo in cui lo stato rappresenta più spesso una fonte di insicurezza che non una garanzia di ordine e benessere e in cui la violenza diventa strumento legittimo di lotta politica, il Mali continua ad avere davanti a sé un percorso verso la pace estremamente lungo e complesso.
Per saperne di più:
De Georgio, A. (2017), “Mali: attentato di Gao, un attacco al processo di pace”, Commentary ISPI, Disponibile su: http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/mali-attentato-di-gao-un-attacco-al-processo-di-pace-16312
OECD & CSAO (2014), An Atlas of the Sahara-Sahel. Geography, Economics and Security, Paris, Disponibile su: http://www.keepeek.com/Digital-Asset-Management/oecd/agriculture-and-food/an-atlas-of-the-sahara-sahel_9789264222359-en#.WKsS5PnhDIU
Whitehouse, B. (2012), “What went wrong in Mali?”, London Review of Books, Vol. 34, no. 16, Disponibile su: https://www.lrb.co.uk/v34/n16/bruce-whitehouse/what-went-wrong-in-mali
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