Il manhua contemporaneo e la satira politica. Il “caso australiano” di Ba Diucao

La vignetta satirica in Cina nasce a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La sua origine e la sua storia nel corso del Novecento sono state in costante rapporto dialogico e dialettico, sia da un punto di vista estetico che retorico, con modelli stranieri (in particolare europei, americani, nipponici e sovietici). Dal XXI secolo, tuttavia, questa transculturalità[1] si esprime soprattutto attraverso la creazione e lo sfruttamento di spazi di confronto e condivisione transnazionali (siti internet, blog e social media), che offrono l’opportunità di “valicare” limiti e barriere censorie.

Ma che cosa rende una semplice vignetta passibile di censura? La risposta ha a che vedere con il motivo fondamentale per il quale lo studio del manhua (漫画)[2] può fornire una chiave d’accesso alla politica, alla società e alla cultura cinese moderna e contemporanea: si tratta dell’indissolubile legame tra questo linguaggio e il proprio contesto di riferimento, inteso come realtà storica, circuito comunicativo e orizzonte culturale[3]. Una connessione sulla quale si innesta il potere (sovversivo) del discorso satirico. La satira è infatti una forma d’espressione “obliqua”, ossia una rappresentazione indiretta o celata (tramite artifici retorici quali l’allegoria) di una situazione di sbilanciamento (politico, sociale, culturale), di un’incongruenza tra “forma” e “sostanza” radicata nella rappresentazione della realtà. Tramite il riso, un testo satirico mira a stimolare la riflessione e a ottenere nel lettore una reazione, che sia essa emotiva o fisica. La satira è de-costruttiva, ed è comunemente utilizzata per esprimere dissenso e critica verso lo status quo.

Il manhua, fin dalle sue origini contraddistinto da una forte carica politica e satirica, ha rappresentato storicamente un locus di rinegoziazione del potere, testimoniando la possibilità di una critica interna al proprio sistema di riferimento. Questo aspetto si è conservato fino ai giorni nostri grazie allo sviluppo di diverse strategie di adattamento, in accordo con le rivoluzioni della gestione (censoria) della comunicazione ufficiale[4], ed è per questo che il manhua può essere analizzato come un esempio dell’azione degli agenti culturali sulla comunicazione, come il prodotto di discorsi (o contro-discorsi) politici, sociali e culturali.

Volendosi limitare anche solo alla storia più recente, è possibile indagare la misura in cui i vignettisti abbiano beneficiato (o abbiano dovuto subire) dell’intervento censorio disomogeneo che ha caratterizzato l’approccio al manhua della politica culturale dalla cosiddetta “nuova epoca” a oggi. A sancire, ad esempio, un rinnovato interesse della politica ufficiale verso questo linguaggio, nel 1979 nasceva il supplemento del Quotidiano del popolo (Renmin ribao, 人民日报) Satira e umorismo (Fengci yu youmo, 讽刺与幽默) a sostegno della rinascita della vignetta satirica cinese che, proprio in quegli anni, tornava a occupare la sua posizione tra le pagine dei periodici[5]. Già a partire dagli anni Ottanta, inoltre, sono stati creati spazi ufficiali di scambio interculturale, attraverso la pubblicazione di antologie bilingue[6] e l’organizzazione di mostre, come quella di Forte dei Marmi, che ha portato alla pubblicazione di un catalogo particolarmente rappresentativo delle tecniche di “gestione” della satira politica visuale all’interno di un’istituzione ufficiale, la China Artists Association.[7] Questi manhua ben esemplificano i limiti e le possibilità della satira politica nella Cina della “nuova epoca”: è presente a diversi livelli una critica di alcuni aspetti politici (burocratismo, corruzione) e, soprattutto, sociali (diseguaglianze, inadeguatezza della sanità pubblica, sovrappopolazione, problemi ambientali) della Cina contemporanea, ma da un raffronto con prodotti di altre epoche (anni Trenta e Quaranta) è evidente quanto questa satira politica non abbia lo stesso mordente, la stessa sfrontatezza[8].

Figura 1. Ba Diucao, Fuck the passport (Cao nima huzhao, 草泥马护照) (© Ba Diucao)

L’avvento di Internet, oltre a creare nuovi spazi di dialogo tra giornalismo e manhua[9], ha offerto nuove opportunità d’espressione anche agli autori più diretti, i cui attacchi sono spesso personali e “violenti” e che (quindi) non potrebbero operare attraverso media (filo)governativi. Nonostante i loro account siano stati da tempo, e più volte, cancellati da Sina Weibo, vignettisti come Rebel Pepper e Ba Diucao, ad esempio, possono ancora vedere le proprie vignette circolare “in sordina” nel cyberspace cinese. Questo perché si tratta di testi primariamente visuali e non è possibile operare su di essi una censura automatica (sulla base di un filtro di parole-chiave), per cui le vignette circolano (o vengono lasciate circolare) a meno di non attirare troppo l’attenzione: l’eccessivo successo di alcuni suoi lavori ha infatti portato alla cancellazione degli account di Rebel Pepper (al secolo Wang Laiming) e al suo auto-esilio in Giappone.

Da un altro punto di vista, Internet ha anche cambiato la natura dei rapporti tra i diversi soggetti coinvolti nella rappresentazione/discussione visuale dei fenomeni legati alla Cina contemporanea su scala internazionale. Negli ultimi anni, per dare spazio alla voce della dissidenza cinese e dunque anche a vignettisti censurati in madrepatria, alcune piattaforme digitali sono state create fuori dai confini cinesi. È il caso per esempio del sito China Digital Times, che negli anni ha garantito visibilità a Crazy Crab (Fengxie, 瘋蟹), Rebel Pepper (Biantai lajiao, 变态辣椒) e Ba Diucao (巴丢草). Ne consegue che la satira politica più sfacciata, che mira direttamente al cuore (o ai volti) del Partito, circola soprattutto all’estero e che dunque si creano dinamiche complesse tra molteplici soggetti e sfere d’influenza coinvolte. Un esempio è il riflesso che il “caso” di Wu Wei (吴维) ha avuto sulla carriera di Ba Diucao, artista cinese naturalizzato australiano.

A causa di una serie di post pubblicati sulla piattaforma di microblogging Weibo, Wu Wei, l’allora capo-tutor presso la Business School dell’Università di Sidney, nell’aprile 2016 è stato accusato di razzismo e condotta inappropriata e in seguito a queste accuse ha rassegnato le dimissioni. I post di Wu Wei definivano “maiali” (tun, 豚) e “maiali cinesi” (zhina tun, 支那豚, termine giapponese denigratorio) gli studenti cinesi d’oltremare, denunciandone in particolare la pratica di pagare ghost-writers per l’elaborazione di saggi accademici. In quei giorni di Wu Wei circolava inoltre un video che lo immortalava nell’atto di bruciare il proprio passaporto. Queste espressioni pubbliche provocatorie hanno dato avvio al “caso Wu Wei” o “caso australiano” (Aozhou shier, 澳洲事儿). Legati all’accusa gli articoli di Honi Soit e Guancha (link in cinese) e una petizione, lanciata da studenti cinesi residenti in Australia,“contro le discriminazioni”, che proponeva contestualmente anche la traduzione in inglese di alcuni post dell’ex tutor. In risposta, una seconda petizione veniva lanciata negli stessi giorni da parte del fronte opposto. L’iniziativa di Wu Lebao (吴乐宝), che si autodefinisce su Twitter ex dissidente e parte delle “forze anti-cinesi all’estero” (wai fanghua shili, 外反华势力), è ascrivibile al movimento di appoggio a Wu Wei, che ha visto il coinvolgimento di netizen e artisti cinesi dissidenti da tutto il mondo. Quello che i difensori di Wu Wei sostenevano è che, con le sue esternazioni, egli non intendesse denunciare i propri studenti, ma criticare un malcostume generale più volte segnalato anche in ambiti accademici internazionali e ignorato dalla politica ufficiale. In ultima analisi, per loro si trattava di “messaggi in codice”[10] di accusa verso quei giovani connazionali succubi della propaganda: il termine tun, infatti, riecheggia haitun (海豚, letteralmente “delfino”), utilizzato nei circoli dissidenti per definire i cinesi d’oltremare nazionalisti e acritici[11]. Ricollegandosi al gesto iconoclasta di Wu Wei e volendo smascherare l’eccessivo e indiretto interventismo del Partito comunista cinese (Pcc) altrove già denunciato (link in cinese), il suddetto movimento assunse presto caratteristiche politiche precise, definendosi come “fuck the passport” (cao ni ma huzhao, 草泥马护照) con un chiaro riferimento all’opera di Ai Weiwei[12].

Figura 2. Ba Diucao, I fanatici in rosa ti osservano in tutto il mondo (Xiaofenhong zai quanshijie kanzhe ni, 小粉红在全世界看着你) (© Ba Diucao)

A sua icona fu eletta l’immagine (Figura 1) – realizzata proprio dal vignettista Ba Diucao – del dito medio rivolto al passaporto cinese, a simboleggiare la libertà di esprimere la propria dissidenza. In questo modo e tramite ulteriori vignette – raffiguranti ad esempio studenti-maiali arrabbiati (con diretti riferimenti verbali e visuali al recente fenomeno degli xiao fenhong, 小粉红[13], Figura 2) e un “nuovo” stemma per l’Università di Sidney in cui campeggiano panda, falci e martelli (Figura 3) – Ba Diucao è diventato uno dei simboli della dissidenza artistica d’oltremare e ha contribuito a consolidare il ruolo del manhua come linguaggio di forte immediatezza comunicativa.

In questo “caso” e da un punto di vista strettamente politico, il manhua si innesta (e contribuisce ad alimentare la discussione) sui rapporti tra il Pcc, la comunità cinese all’estero – giudicata prona al lavaggio del cervello governativo – e il governo australiano, raffigurato in una posizione di sudditanza economico-politica. Niente male, per essere soltanto una “vignetta”.

Figura 3. Ba Diucao, Il nuovo stemma dell’Università di Sidney (Xida xin jiaowei, 悉大新校徽) (© Ba Diucao)

[1] In accordo con Welsh, per “transculturalità” si intende il superamento delle dicotomie e dei confini tra le culture, le quali si formano, letteralmente, nello scambio. Cfr. Wolfgang Welsch, “Transculturality. The Puzzling Form of Cultures Today”, in Spaces of Culture: City, Nation, World, a cura di Mike Featherstone e Scott Lash (London: Sage, 1999), 194–213. Un approccio transculturale risulta necessario nell’analisi di linguaggi visuali come quello delle vignette satiriche, costruitosi sulla base di uno scambio asimmetrico ma produttivo.

[2] Gli artisti attivi tra gli anni Venti e Trenta del XX secolo popolarizzano il termine come traduzione di “cartoon”, nel senso di vignetta singola (single-panelled vignette), ampliandone tuttavia i confini stilistici e tematici in modo da includere, ad esempio, i fotomontaggi e i diorama. Ad oggi, tuttavia, esso è utilizzato per definire anche altre forme d’espressione visuale, come ad esempio i fumetti e in particolare quelli d’ispirazione nipponica.

[3] Michele Sorice, Sociologia dei mass media (Roma: Carocci, 2009), 142-143.

[4] Per una storia del manhua dalle origini agli anni Duemila si veda Gan Xianfeng, Zhongguo manhuashi (Storia del manhua cinese) (Jinan: Shandonghuabao chubanshe, 2008), 241- 362.

[5] Tra i più importanti si annoverano Quotidiano del popolo, China Daily e Quotidiano dei lavoratori, mentre circa una ventina furono le riviste specializzate in cartoon e fumetti lanciate tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Si veda Cartoons from Contemporary China, a cura di Lan Jianan e Shi Jicai (Beijing: New World Press, 1989).

[6] Lan e Shi, 1989, op. cit.; Hua Junwu e W.J.F. Jenner, Chinese Satire and Humor. Selected Cartoons of Hua Junwu, 1955-1982 (Beijing: New World Press, 1984).

[7] La mostra “Fengci Manhua, 讽刺漫画. La Satira Contemporanea in Cina” si è tenuta presso il Museo della satira dal 9 agosto al 5 ottobre 2008. Il catalogo, a cura di Cinzia Bibolotti e Franco Angelo Calotti, è reperibile come ebook gratuito: http://www.museosatira.it/ebook.html. Tra gli autori Xu Pengfei (徐鹏飞), all’epoca della mostra presidente della sezione “cartoon” dell’associazione e caporedattore del Quotidiano del popolo e di Satira e umorismo, ben rappresenta la possibilità dei vignettisti contemporanei di inserirsi tra le maglie della comunicazione ufficiale senza dover rinunciare a un’anima satirica.

[8] Liao Bingxiong (1915-2006), una figura molto importante e particolarmente sovversiva nella storia del manhua del Novecento, ha rilasciato nel 2002 un’intervista nella quale si esprime sui colleghi e spiega le ragioni del suo ritiro a metà degli anni Novanta. Per lui, l’opera di vignettisti contemporanei non vale quanto quella degli autori moderni, giacché gli autori di oggi “non osano esprimersi” e “il cartoon cinese è morto molto tempo fa”. Cfr. John A. Lent e Xu Ying, “Liao Bingxiong: A Chinese Style Man with Universal Values”, in International Journal of Comic Art 9 (2007): 650- 667.

[9] Sulle pagine web di quotidiani come il Global Times, il China Daily, il China Press e il Beijing Daily compaiono sezioni dedicate al manhua oppure questi vengono utilizzati come controparte visuale (in linea di massima umoristica) di determinati articoli.

[10] Qui si approfondisce il legame tra il linguaggio di Wu Wei e il gergo dissidente.

[11] Si tratta di una variante dispregiativa dei più comuni haigui (海龟) e haidai (海带), letteralmente “tartaruga di mare” e “alga marina”, utilizzati per definire gli studenti cinesi d’oltremare tornati in patria.

[12] Il movimento ha coinvolto diversi netizen, che hanno contribuito attivamente, inviando proprie fotografie: il soggetto di queste immagini riproduce il manhua di Ba Diucao, ossia “diti medi” rivolti contro passaporti cinesi.

[13]Xiao fenhong”, letteralmente “piccoli rosa”, è un termine dispregiativo utilizzato online per definire quei giovani nazionalisti che utilizzano internet come un vero e proprio “campo di battaglia del patriottismo”.

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