Il concetto di “campo de guerra” teorizzato da Sergio González Rodríguez, luminoso scrittore e studioso di Messico, si adatta a disegnare in forme e intensità diverse, quegli spazi di terra e di mare – Americhe e Mediterraneo – che sono attraversati dalle odierne migrazioni. Ambiti che costituiscono una sorta di laboratorio d’interazioni umane dove si stagliano prepotentemente e prevalentemente meccanismi di controllo e di dominio, comportamenti violenti e dove è possibile riflettere, da un punto di vista antropologico, sulla dimensione umana della migrazione. Si apre un vasto scenario dove si intrecciano economia legale e illegale, poteri politici, poteri criminali, l’inefficacia delle autorità, l’impunità fuori controllo e uno stato, come quello messicano, che opera contro la legalità e fuori da essa, pur simulando legalità e legittimità e costituendo quindi, come lo definisce González (2014), un An-Estado che è la privazione e la negazione di se stesso. L’immagine e il modello del “campo de guerra“, in alcuni aspetti, si può estendere anche oltre il Messico e ritrovarsi nelle “simulazioni” degli stati e in quella “politica del delirio” condotta dall’Unione Europea verso i migranti che arrivano dal Mediterraneo (Sossi 2016).
All’interno di questa cornice, l’illegalità è un “affare globale” (González 2014), la popolazione di molti paesi, segnati da forti diseguaglianze sociali, è sempre più indifesa e le alternative di molte persone si riducono in modo crudele. Si aderisce al crimine organizzato, o si vive d’illegalità, o si cade nell’emarginazione o si è costretti a migrare all’interno o all’esterno del proprio paese. Si lascia la propria terra non solo per ragioni economiche ma principalmente per sfuggire da devastazioni ambientali, disastri naturali, carestie, guerre, dall’impatto altamente negativo di mega progetti sul territorio. Non bisogna tuttavia dimenticare che i desplazados (migranti forzati), non sono soltanto vittime di determinati processi, ma anche soggetti storici. Le strategie, le pratiche di resistenza e sopravvivenza, gli sforzi per ricreare, ovunque, una vita politica, sociale e culturale propria, lo dimostrano e le Comunidades de Población en Resistencia in Guatemala e le Comunidades de Paz in Colombia ne sono esempio.
Nel 2016 UNHCR denunciava che i desplazados nel mondo sono passati da 37,3 milioni nel 1996 a 65,3 milioni di persone nel 2015. In forme diverse, in Europa, nel Mediterraneo, nelle Americhe, le persone in cammino trovano nelle frontiere uno strumento di esclusione e di controllo dei corpi e del territorio.
Il Messico si configura come uno dei corridoi migratori più vasti e pericolosi del mondo. Lo limitano la frontiera nord e il muro con gli Stati Uniti, severamente vigilato dalla migra messicana e dalla Border Patrol con l’aiuto di elicotteri e di sofisticate tecnologie, e la frontiera sud con il Guatemala, controllata da agenti di polizia e da schiere di militari muniti di armi ad alto impatto. In questo corridoio confluiscono migranti provenienti dal Centro e Sud America e negli ultimi anni arrivano in migliaia, anche dall’Africa, da Haiti, dal Brasile e dall’Asia.
Per raggiungere il confine con gli Stati Uniti, i due percorsi principali, sono la ruta de la costa che inizia da Arriaga, stazione di partenza del famoso treno merci detto La Bestia e il corredor del Golfo che inizia a Tenosique per poi confluire in altri snodi ferroviari nello Stato di Veracruz. Su La Bestia viaggiano, oggi in numero minore, i migranti aggrappati ai vagoni e sul tetto, incorrendo in ogni tipo di rischio, mutilazioni e morte. L’aumento delle detenzioni e deportazioni incrementati dal Programa Frontera Sur, creato per bloccare il flusso già al confine con il Guatemala, ha causato un cambiamento significativo delle rotte utilizzate dai migranti, dai trafficanti di persone (polleros, coyotes) e dai potenziali richiedenti asilo provenienti dall’infuocato Triángulo Norte de Centroamérica (Guatemala, Salvador, Honduras).
Migranti sul treno merci La Bestia. Fonte: John Moore/Getty Images
Lungo tutto il percorso che attraversa il territorio messicano, i migranti vengono considerati come un bottino di guerra da cui trarre immensi guadagni. Le mafie, le bande criminali, i funzionari pubblici corrotti, i trafficanti di esseri umani riversano su di loro ogni tipo di violenza: estorsione, sequestro (con somme che oscillano da 3 mila a 5 mila dollari richieste ai parenti oltre la frontiera), stupri, traffico di organi, imposizione di diventare sicari o corrieri della droga e per le donne, la consegna alle reti delittuose della tratta. Una violenza che porta a cifre altissime di vittime: negli ultimi dieci anni sarebbero oltre 10.000 i migranti centroamericani desaparecidos. Una delle tragedie umanitarie meno documentate del XXI secolo.
Questo itinerario di morte è tuttavia costellato da una rete di rifugi per migranti tenuti da religiosi e volontari provenienti da tutto il mondo. Sono i vari Albergues come l’Albergue Hermanos en el Camino a Ixtepec (Oaxaca), fondato da Padre Alejandro Solalinde Guerra, uno dei più strenui difensori dei diritti dei migranti, costantemente minacciato di morte per aver denunciato i crimini contro di loro. Altra grande sfida la conduce Tomás González Castillo, frate francescano, che ha fondato l’Albergue para personas migrantes la 72 a Tenosique (Tabasco) a pochi kilometri dalla frontiera con il Guatemala. Fray Tomás continua a sfidare lo stato dicendo che “nessuno è illegale” e ricordando l’importanza di generare dignità tra tanta sofferenza e incertezza. Il suo rifugio prende il nome dal massacro dei 72 migranti avvenuto nel nord del paese nel 2010. Il ruolo degli Albergues non consiste solo nel dare cibo e riposo a chi arriva, ma si fonda anche su svariate azioni mirate a forgiare nuove identità affinché chi si trova in migrazione forzata possa trasformarsi in soggetto sociale.
Due esempi simbolici – i massacri di Cadereyta e di San Fernando – mostrano come sia difficile per i migranti sfuggire alla barbarie criminale. Nel maggio del 2012 sono stati trovati lungo la rotta ai bordi della statale di Cadereyta (Nuevo León) i 49 torsi – quindi mutilazione della testa, delle braccia, delle gambe – di 6 donne e 43 uomini provenienti da Honduras, Costa Rica e Messico. Lavorano al caso l’Equipo Argentino de Antropología Forense (EAAF), periti della Procuraduría General de la República (PGR) e 11 organizzazioni tra cui la Fundación para la Justicia y el Estado Democrático de Derecho. Solo 8 hondureños sono stati identificati ma molte altre famiglie ancora aspettano in una sofferenza indicibile senza la possibilità di elaborare il lutto né di avere la certezza dell’identità dei corpi. Nell’agosto del 2010 a San Fernando (Tamaulipas), 72 migranti centroamericani, 58 uomini e 14 donne, furono torturati e assassinati, in un casolare abbandonato. Il massacro è attribuito a Los Zetas, uno dei più addestrati ed efferati cartelli messicani. Los Zetas dilatano il proprio potere, tessono alleanze, si espandono oltre le frontiere messicane, pervadono altri paesi, attraversano l’oceano e disegnano uno scenario che incombe sull’Europa. Qui controllano oltre il traffico di droga e di armi anche il traffico di esseri umani e sono in stretto rapporto d’affari con la ‘Ndrangheta, che gestisce annualmente 55 miliardi di dollari in imprese criminali (González 2014).
Un’umanità disperata si accalca ai confini di molte regioni latinoamericane e altrettante politiche di respingimento si replicano oltreoceano. L’accordo siglato dall’Unione Europea con la Turchia nel 2016 ha portato alla chiusura della rotta balcanica che era il corridoio d’ingresso nell’Unione Europea per persone in fuga dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Bangladesh e dall’Iraq. Migliaia di persone sono ora bloccate, in condizioni disumane in Grecia e in altri confini invalicabili; altre cambiano itinerario passando dal Nord Africa per raggiungere la rotta, sovente letale, del Mediterraneo Centrale.
Numeri ingenti di morti e dispersi, chiamati nuovi desaparecidos o missing, di cui più nulla si è saputo, costellano anche questo spazio lontano dal corridoio centroamericano: il Mediterraneo. Negli ultimi 15 anni oltre 30.000 migranti sono morti in questo mare; più del 60% giace sepolto senza identità. Con grande impegno sull’identificazione dei corpi sta lavorando LABANOF, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università degli Studi di Milano.
Come in Messico anche qui, tra la normalità si trova la barbarie tollerata dagli stati e dai governi. Una barbarie che può sembrare meno atroce, senza spargimento di sangue né mutilazioni, una barbarie che non si vede perché l’acqua la nasconde e ne dissolve il ricordo. Tuttavia non meno violenta è la condizione di chi muore affogando o vede i propri figli perdere lentamente la vita: abbiamo davanti agli occhi la scena del naufragio dell’11 ottobre 2013 in cui morirono, dopo ore di attesa di soccorso, 268 migranti, riportata nell’impressionante video-racconto di Fabrizio Gatti nell’inchiesta dell’Espresso, del 9 maggio 2017.
In Europa vi sono non solo barriere invalicabili come quella serbo-ungherese, ma anche spazi e pratiche, giustificati per accogliere, che invece rimandano a una cultura della vergogna e del terrore: i Centri d’identificazione ed espulsione (CIE), gli hotspot, ambiti segnati da comportamenti ibridi, senza un concetto giuridico che li definisca, caratterizzati da vuoti normativi. Ci sono poi centinaia di casi apparentemente irrilevanti in cui le barriere linguistiche, la fretta, la stanchezza, forse la superficialità o la scarsa formazione di chi accoglie possono rivelarsi fattori gravissimi e decretare, per esempio nella compilazione del cosiddetto foglio-notizie, il destino di un migrante che chiede protezione internazionale, come evidenziato da Maurizio Veglio ne Il Diritto d’asilo – Report 2017. Si ravvisa qui l’efficace concetto di “continuum genocida” teorizzato da Nancy Scheper-Hughes nel 2005 per indicare, negli spazi sociali normativi, il verificarsi di tutta una serie di violenze interstiziali quotidiane, che rimangono impunite e perfino autorizzate dalla cultura dominante e che rinviano alla capacità umana di ridurre gli altri allo stato di non-persone.
La morte aggiunge una nuova forma di frontiera, una “frontiera parallela”, che separa il migrante dai propri cari e rivela l’impatto transnazionale della frontiera (Kovras e Robins 2016) sulle vite di migliaia di famiglie di migranti deceduti o missing o desaparecidos. A cornice di tante perdite e sparizioni, rimane la forza e la costanza delle centinaia di madri che continuano a cercare i propri figli. Lo fanno singolarmente o riunite in gruppi come nella nota Caravana de Madres Centroamericanas, organizzata dal Movimiento Migrante Mesoamericano, e che una volta all’anno percorre il territorio messicano con l’inesauribile speranza di trovare qualche traccia. Da oltre tre anni, queste madri sono accompagnate simbolicamente in Italia dalla Carovana per i diritti dei migranti, per la dignità e la giustizia che tenta di creare relazioni tra mondi distanti e pratiche diverse. A fronte della scia incalcolabilmente ingente di desaparecidos e di vittime nei percorsi migratori, diviene un imperativo d’obbligo denunciare questa barbarie ovunque si presenti.
Guadalupe González, una de Las Patronas (Messico) durante la II Carovana Italiana per i diritti dei migranti, la dignità e la giustizia. Fonte: CarovaneMigranti (2016)
Per saperne di più:
González Rodríguez, S. (2014) Campo de guerra, Barcelona, Anagrama.
Kovras, I. e Robins, S. (2016) “Death as the border: Managing missing migrants and unidentified bodies at the EU’s Mediterranean frontier”, Political Geography, vol. 55, pp. 40-49. Disponibile su: http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0962629816300233
Licata, D. e Molfetta, M. (a cura di) (2017) Il diritto d’asilo. Report 2017. Minori rifugiati vulnerabili e senza voce, Fondazione Migrantes, Roma.
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