L’Asia negli ultimi due decenni ha sperimentato una crescita costante e apparentemente inarrestabile di iniziative regionali sia statali sia non governative. Tuttavia questo trend verso la regionalizzazione ha spinto vari governi ad annunciare numerose iniziative spesso prive di una chiara strategia attuativa. Il Bangladesh-China-India-Myanmar Economic Corridor (BCIM-EC), inizialmente concordato bilateralmente tra Cina e India, cui si sono poi aggiunti Bangladesh e Myanmar, rappresenta un esempio di tale trend. Aung San Suu Kyi nel corso della visita in Cina dell’agosto 2016 in qualità di Consigliere di Stato ha confermato l’iniziativa in un comunicato congiunto. Gli obiettivi principali del progetto consistono nello sviluppo delle infrastrutture regionali di trasporto, nell’incremento dello sfruttamento delle risorse di cui la regione è ricca, nella promozione degli scambi transfrontalieri e del commercio regionale, e nell’istituzione di zone industriali. Dal 1999 think tank indiani e bengalesi unitamente al governo provinciale dello Yunnan (Cina) e rappresentanti del governo birmano sono impegnati nella promozione dell’idea di una più stretta cooperazione economica regionale sostenuta dai rispettivi governi centrali. L’iniziativa ha favorito stretti legami professionali e personali tra i partecipanti, ma finora manca un programma concreto. Un Gruppo di Studio Congiunto costituito dai quattro governi ha avuto mandato di formulare fino al 2018 progetti da implementare nel quadro del BCIM-EC.
Tuttavia, commercio regionale, investimenti in infrastrutture ed estrazione delle risorse stanno fiorendo al di fuori del progetto BCIM-EC, mentre i suoi obiettivi fondamentali (rafforzamento congiunto di commercio, scambi, turismo e sviluppo) sono attualmente privi di regolamentazione e hanno un alto potenziale di aggravare vecchi conflitti, finanche producendone di nuovi.
In particolare, il raggiungimento degli obiettivi deve tenere conto della complessa relazione economica tra la Cina e il Myanmar. Tra il 1988 e il 2017 il Myanmar ha ricevuto 70 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri (IDE), principalmente diretti verso il settore degli idrocarburi e dell’energia. Ma se fino al 2015 la Cina ha detenuto la quota maggiore di tale flusso (seguita da Singapore, Thailandia e Regno Unito), nell’anno fiscale 2015/16 il primato cinese è stato scalzato da Singapore che ha totalizzato oltre 4 miliardi di dollari di investimenti verso il Myanmar (situazione poi consolidatasi nell’anno successivo). Sul fronte dell’interscambio commerciale, il volume del commercio tra Cina e Myanmar è cresciuto costantemente nell’ultimo decennio. Dal 2011 la Cina si è imposta come primo partner commerciale del Myanmar, che sconta un deficit commerciale annuale verso Pechino di circa 1 miliardo di dollari. I dati ufficiali, tuttavia, escludono i grandi volumi di investimenti e commerci informali, che possono essere solo approssimati, descrivendo quindi solo una parte della realtà. Oltre la metà degli scambi ufficiali tra i due Paesi avviene attraverso le cinque stazioni di frontiera ufficiali che collegano il nord del Myanmar alla provincia cinese dello Yunnan. Il valico tra Ruili (Yunnan) e Muse (Stato Shan) è il più importante, rappresentando oltre l’80% del commercio bilaterale legale e un volume di scambi che negli ultimi cinque anni è quadruplicato. Ma oltre ai cinque ufficiali ci sono molti valichi informali attraverso cui gli scambi illegali e informali di molti prodotti (quali legname, droghe) sono ugualmente in crescita.
Zhu Zhenming della Yunnan Academy of Social Sciences ha recentemente dichiarato in un’intervista a Global Times che le attività criminose transfrontaliere, compresi narcotraffico, traffico di esseri umani e frodi nelle telecomunicazioni, tra Cina e Myanmar sono cresciute fortemente negli ultimi anni. Lo stesso articolo cita un report della National Narcotics Control Commission del Ministero di Pubblica Sicurezza della Cina che indica come la produzione e il traffico di oppio e metanfetamine tra il cosiddetto triangolo d’oro e la Cina sud-occidentale sia in crescita, così come i cartelli della droga sia in Myanmar sia in Cina.
L’intensificarsi di attività economiche, in particolare attraverso grandi progetti estrattivi e infrastrutturali, alimenta nuovi conflitti e ne risvegliano di vecchi. Inoltre, come dimostrano i tre casi trattati di seguito, grandi progetti estrattivi e infrastrutturali tra Cina e Myanmar possono causare i conflitti in corso o contribuirvi.
Due pipeline, un gasdotto e un oleodotto, la cui costruzione è cominciata nel 2009, connettono la costa birmana del Golfo del Bengala con il sud-ovest della Cina percorrendo circa 800km. Nel 2013 la prima fornitura di gas estratto dal giacimento di Shwe ha raggiunto la Cina, mentre nel 2017 è giunto per la prima volta il petrolio proveniente dal Medio Oriente. Secondo i piani, una quota compresa tra il 5% e il 10% delle importazioni totali di petrolio greggio della Cina passerà tramite il gasdotto birmano e mentre circa il 10% del gas verrà utilizzato in Myanmar, tutto il petrolio sarà destinato alla Cina. Tali linee di rifornimento, garantendo alla Cina un’alternativa allo Stretto di Malacca sono spesso citate come prova della superiorità di Pechino rispetto a Nuova Delhi nel raggiungere i propri obiettivi strategici. L’India, infatti, ha negoziato anch’essa una pipeline con il Myanmar, ma si è poi ritirata a causa di problemi tecnici. Alcune fonti cinesi, tuttavia, contestano tali conclusioni positive sottolineando l’elevato grado di rischio legato alla redditività dei due progetti. I violenti conflitti in corso nel sud dello Stato Kachin e nello Stato Shan settentrionale, aree attraversate dalle pipeline, determinano preoccupazioni inerenti la sicurezza fisica e l’operabilità delle due infrastrutture. Secondo alcuni osservatori le milizie potrebbero sfruttarle per ricattare il tanto il governo del Myanmar quanto quello cinese. Nel novembre 2016 violenti scontri tra l’esercito birmano e tre organizzazioni armate etniche (EAO) hanno colpito anche l’area di Muse, interrompendo per un periodo il commercio e provocando la fuga di migliaia di civili verso lo Yunnan ed evidenziando il rischio, come affermato da Peng Nian della Hong Kong Baptist University che in caso di conflitto intenso l’attività delle pipeline potrebbe essere rallentata o interrotta. Ciò dimostra come le EAO possano esercitare una pressione economica fermando le operazioni delle pipeline per influenzare politiche concernenti loro stesse o l’intera regione.
A parte il settore degli idrocarburi, un progetto idroelettrico da 3,6 miliardi di dollari, la diga di Myitsone nello Stato Kachin (nel Myanmar settentrionale) è stato molto più controverso. La China Power International e Ministry of Electric Power birmano avevano firmato un contratto per la costruzione nel 2009, secondo il quale il 90% dell’elettricità prodotta avrebbe dovuto essere esportato in Cina e l’impianto sarebbe stato trasferito sotto la sovranità birmana dopo 50 anni. A fine 2009 iniziarono i lavori per la costruzione dell’infrastruttura, ma il previsto reinsediamento di oltre 10 mila persone assieme a report indicanti i rischi per siti culturali e per la produzione agricola a valle, hanno causato proteste via via crescenti. Il Kachin Independent Army (KIA), che si opponeva al progetto, nel 2010 iniziò ad attaccare il sito e a lanciare attacchi contro l’esercito, provocando un’escalation che interruppe un cessate-il-fuoco durato 17 anni. In seguito all’esplosione del conflitto circa 20 mila persone si rifugiarono nello Yunnan. Nell’agosto 2011 Aung San Suu Kyi propose di interrompere la costruzione e il mese successivo Thein Sein, l’allora Presidente del Myannar, annunciò formalmente l’interruzione (tuttora non è stata presa una decisione sul futuro della diga). Gli osservatori hanno giudicato la decisione del governo birmano come una mossa politica per ridurre la pervasiva influenza cinese percepita in Myanmar, in un atto di “difesa nazionale”.
Il terzo esempio di progetto su larga scala sfociato in forti proteste è la cooperazione con la Cina per l’immensa Letpadaung Copper Mine nella regione di Saiging al confine con l’India nord-orientale, di proprietà dell’impresa cinese Myanmar Wanbao Mining Copper Ltd. e di varie aziende birmane. L’investimento, pari a 1,1 miliardi di dollari, è il più grande investimento nel settore minerario deciso dalla Cina, quando la prima versione del contratto fu firmata dal Primo Ministro cinese Wen Jiabao nel 2010. I lavori iniziarono l’anno successivo, ma dovettero essere interrotti per ragioni ambientali nel 2012. Una commissione parlamentare guidata da Aung San Suu Kyi ebbe il compito di effettuare un’indagine, e una volta che la commissione terminò la relazione di valutazione i lavori ripresero nel marzo 2013 portando nel 2016 all’avvio della produzione. Permangono, però, continue segnalazioni circa i rischi ambientali inerenti da un lato la gestione dei rifiuti tossici, e dall’altro il comportamento brutale delle forze di polizia contro le iniziative locali a favore dell’ambiente.
Questi brevi esempi mostrano come grandi progetti estrattivi abbiano un’alta probabilità di favorire la destabilizzazione regionale, in particolare se la popolazione locale viene esclusa e la distribuzione dei profitti è fortemente diseguale. Inoltre, gli investimenti in Myanmar restano insicuri a causa della presenza di molti conflitti ancora irrisolti. Iniziative regionali come il BCIM-EC potrebbero avere quindi un impatto positivo, qualora riuscisse a predisporre in modo congiunto regole sia per gli investimenti sia per lo sviluppo regionale. Resta aperta la questione se il Gruppo di Studio Congiunto del BCIM-EC sarà in grado di formulare e imporre principi di integrazione economica che bilancino interessi diversi e contribuiscano a favorire un percorso di sviluppo più pacifico.
Traduzione dall’inglese a cura di Gabriele Giovannini. Presto anche in inglese sul sito di T.wai.
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