Nel maggio 2017 circa 1400 delegati hanno in rappresentanza di governo, parlamento, partiti politici, società civile e organizzazioni armate etniche (EAO) hanno accolto l’invito di Aung San Suu Kyi di partecipare a nuovi colloqui di pace. Durante i negoziati sono state affrontate questioni politiche, sociali, economiche, militari e ambientali, ma prevedibilmente non è stato raggiunto un accordo vincolante relativo al tema più importante, ovvero la natura di meccanismi federali di condivisione del potere tra i vari gruppi etnici. Il punto più controverso è stato la clausola anti-secessionista che gli ufficiali governativi hanno insistito affinché venisse inclusa nell’accordo finale. Infatti i rappresentanti della maggior parte delle EAO, nonostante ufficialmente rifiutino mire secessionistiche e si impegnino a raggiungere un sistema federale attraverso il negoziato, a causa di decenni di guerra civile ritengono che l’opzione dell’autodeterminazione debba essere mantenuta come estrema ratio. Inoltre, dal momento che le EAO dipendono dal supporto locale ed essendo esse inestricabilmente collegate a più ampi progetti etno-nazionali, la posizione dei loro leader non può essere compresa senza considerare i trend sociali. Infatti, sebbene alcuni leader abbiano dimostrato la volontà di trovare un compromesso con il governo, la prospettiva della base del loro movimento è diventata invece più intransigente. Nel nord del Paese, ad esempio, nello Stato Kachin devastato dalla guerra, la popolazione ha perso fiducia nella capacità (e sincerità) di Aung San Suu Kyi di negoziare una risoluzione pacifica e pertanto chiede sempre di più di ottenere l’indipendenza. Per anni gran parte delle minoranze etniche del Myanmar, inclusi i Kachin, hanno riposto in Aung San Suu Kyi le proprie speranze di riconciliazione nazionale e il trionfo elettorale in occasione delle storiche elezioni del 2015 è stato favorito anche dal loro supporto. Tuttavia, poiché il conflitto armato è proseguito, persino intensificandosi, da quando Aung San Suu Kyi è salita al potere, molti suoi sostenitori si sono sentiti traditi.
Una manifestazione chiara di tale malcontento si è avuta l’11 gennaio, in occasione del Kachin State Day di quest’anno – cinque giorni dopo che il Myanmar aveva festeggiato il 69° anniversario dell’indipendenza dal governo coloniale britannico -, quando circa cinquemila Kachin si sono riuniti nel Manau Park di Myitkyina, la capitale provinciale dello Stato Kachin dove la guerra tra Kachin Independence Organisation (KIO) e governo è riesplosa dopo che un cessate il fuoco durato 17 anni è naufragato nel 2011.
Il conflitto si è intensificato in particolare con il lancio di offensive su larga scala nell’agosto 2016 da parte dell’esercito governativo. Si è assistito a due eventi paralleli: mentre la festa ufficiale organizzata dalla NLD andava deserta, giovani e anziani affollavano una manifestazione alternativa organizzata da gruppi studenteschi, attivisti e chiese locali (la maggioranza dei Kachin è di fede cristiana). Nel corso della mattinata gruppi di giovani si sono esibiti in danze e canti rivoluzionari e attori di una compagnia teatrale locale hanno rivisitato i 55 anni di storia della ribellione Kachin contro il governo centrale indossando le uniformi della KIO. La scena era ricoperta da un mare di bandiere rossoverdi con due spade incrociate: l’insegna tradizionale della KIO. Ancora più significativi sono però stati i discorsi appassionati di politici locali, attivisti e pastori che non si sono limitati a domandare la cessazione dell’offensiva negli Stati Kachin e Shan, invocando una vera e propria indipendenza dello Stato Kachin scatenando gli applausi della folla. Fino a un anno fa la maggioranza dei Kachin manifestava dietro lo slogan “Awng dang!”, letteralmente “verso la vittoria”, e normalmente utilizzato per esprimere il desiderio di maggiore autonomia all’interno di un’unione federale coerentemente con l’obiettivo ufficiale della KIO. Oggi, tuttavia, molti Kachin preferiscono l’espressione “Awng dawm!” che significa “verso l’indipendenza” e lascia molto meno spazio al negoziato.
Per comprendere le ragioni per cui la società Kachin ha smarrito la fiducia nel processo di pace promosso da Aung San Suu Kyi un anno dopo averla votata bisogna partire dal fatto che dalle elezioni la situazione nello Stato Kachin non è migliorata. Al contrario, il Tatmadaw (le forze armate nazionali) dall’agosto 2016 ha rafforzato la campagna contro le posizioni della KIO e dei suoi alleati. Allo stesso tempo anche l’alleanza composta da gruppi etnici ribelli che include la KIO e i movimenti Kokang e Palaung ha incrementato la propria offensiva. Nonostante gran parte delle unità ribelli Kachin resti su posizioni difensive in aree isolate sotto il controllo della KIO garantendosi così un vantaggio strategico nel respingere le offensive della fanteria, esse hanno poche possibilità di successo di fronte al crescente utilizzo da parte del Tatmadaw della forza aerea e dell’artiglieria. L’escalation non ha causato solo pesanti perdite da entrambi i lati, ma ha anche deteriorato la situazione umanitaria di molte migliaia di civili intrappolati nei combattimenti. Il dramma degli sfollati interni (IDPs) si è poi ulteriormente acutizzato quando l’esercito ha bloccato l’inoltro degli aiuti provenienti da agenzie locali e internazionali. Oggi gli aiuti di emergenza sono letteralmente a un punto morto lasciando gli sfollati abbandonati a loro stessi in condizioni impossibili. Questa situazione ha reso difficile per molti Kachin e altre minoranze etniche continuare a credere negli attuali negoziati di pace.
È interessante notare che i leader delle EAO potrebbero essere più disposti a trovare un compromesso rispetto ai civili nelle aree periferiche del Myanmar. Un giovane leader Kachin l’ha sottolineato chiaramente: “Anche all’interno della KIO molti generali vogliono il processo di pace… Ma noi abbiamo bisogno di Awng dawm, indipendenza”. Va tuttavia rimarcato che le critiche dei Kachin verso Aung San Suu Kyi non derivano tanto dall’escalation militare, essendo consapevoli dei limiti del governo nell’imporre il proprio volere ai generali, quanto invece dai suoi silenzi, che producono una sensazione di tradimento dopo averla aiutata a conquistare il potere, e da quello che vedono come un’accettazione del Tatmadaw. Per molti Kachin l’ultima goccia è stata quando Aung San Suu Kyi ha lodato “lo sforzo eroico del Tatmadaw e delle forze di sicurezza” per la loro lotta contro l’alleanza guidata dalla KIO nel nord dello Stato Shan. Secondo un ufficiale della KIO la crescente domanda di indipendenza attraverso l’uso della forza tra i Kachin complica la capacità del movimento di negoziare un accordo federale con il governo.
Uno scollamento simile tra leader ribelli favorevoli al compromesso e una base meno conciliatoria si può riscontrare in altre EAO attraverso il Myanmar, a partire dalla Karen National Union (KNU), il più antico movimento etnico ribelle del Paese. Se un cessate-il-fuoco con il governo ha posto fine a decenni di guerra al confine tra Thailandia e Myanmar, molti Karen oggi devono affrontare nuove cause di impoverimento e insicurezza come gli sfollamenti dovuti agli investimenti e alla crescente militarizzazione del territorio. Per superare l’impasse al tavolo negoziale a Naypyidaw, per Aung San Suu Kyi non è quindi sufficiente interfacciarsi con i leader delle EAO, ma appare altrettanto importante ricostruire la fiducia tradita nella volontà (e capacità) del suo governo di far fronte alle vere e annose istanze delle comunità delle minoranze etniche.
Traduzione dall’inglese a cura di Gabriele Giovannini
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