Marco Bagozzi e Andrea Bisceglia, Storia del calcio cinese. Dalle origini ai giorni nostri, Torino: Bradipolibri, 2017.
Il 15 giugno 2013, a Guangzhou, la nazionale di calcio cinese perde 5-1 contro la Thailandia (n. 147 nel ranking FIFA). È la goccia che fa traboccare il vaso: secondo i massimi dirigenti politici di Pechino, una grande nazione, la seconda economia al mondo, una potenza regionale come la Cina deve dotarsi di una squadra di calcio che competa con l’aristocrazia del pallone, composta dalle otto squadre che hanno vinto almeno una delle venti edizioni della coppa del mondo (Brasile, Italia, Germania, Argentina, Uruguay, Francia, Inghilterra e Spagna). È così che Xi Jinping, mentre pronuncia alla nazione il discorso di fine anno, lascia che alle sue spalle scorrano le immagini di una sua visita in Irlanda, intento a calciare un pallone. L’intento è chiaro: preparare il terreno per l’adozione di una politica di diffusione e rafforzamento del calcio in modo capillare, a partire dalle scuole primarie, investendo e scommettendo sulle giovani generazioni per creare i campioni del domani, pronti a sfidare la supremazia occidentale anche negli stadi. Questa politica viene enunciata formalmente nel marzo 2015, quando il Consiglio di Stato pubblica il Piano generale per la riforma e lo sviluppo del calcio cinese, articolato in ben cinquanta punti.
Con il Piano di Xi Jinping si conclude la rigorosa e appassionata storia del calcio cinese raccontata da Marco Bagozzi e da Andrea Bisceglia, un giornalista in grado di coniugare sport e geopolitica e un professionista che da anni coniuga gli studi cinesi con la pratica calcistica, in Italia e in Cina. Il risultato è un libro assai curioso, non solo per gli addetti ai lavori (che troveranno nel testo una miniera di informazioni relative a campionati, giocatori, allenatori) ma anche per il lettore medio, che semplicemente cerca di comprendere una realtà che appare lontana dalla nostra, ma che invece bussa all’uscio di casa, come dimostrano le acquisizioni di entrambe le prestigiose squadre di Milano.
Se il testo prende le mosse dall’antenato del gioco del calcio, il cuju (蹴鞠), di cui si ha traccia nelle iscrizioni risalenti alla dinastia Shang (1600-1046 a.C.), è nel XIX secolo che, con l’arrivo dei missionari, la Cina è socializzata allo sport moderno. Calcio e politica sono quindi fin dall’inizio fortemente intrecciati, replicando un canone che ha poi attraversato – a fasi alterne – tutta la storia della Cina contemporanea, pronta ad accettare la modernità per rafforzare lo Stato e la nazione, ma senza per questo occidentalizzarsi. Sun Yat-sen è il primo a esserne consapevole, e a sostenere gli sforzi di aggregazione dei piccoli club che sfociano nel primo campionato, nel 1926 – gli autori citano la Geopolitica del calcio di Pascal Boniface (2000) per definire il calcio come “coagulante del sentimento nazionale” (p. 23).
Una volta ricostituito l’ordine dopo anni di guerre intestine, Mao si avvicina all’Unione Sovietica, e la Repubblica popolare cinese (Rpc) trova nella celebrazione dell’ardimento fisico e della dirittura morale (contrapposta alla decadenza borghese del Kuomintang) un nuovo terreno fertile per educare le masse alla pratica sportiva. Nel 1952, Mao esorta a “promuovere la cultura fisica e lo sport, e a costruire la salute del popolo”, e nel 1954 il maresciallo He Long, alla guida della Commissione Nazionale dello Sport, dichiara l’obiettivo di “sviluppare lo sport delle ‘tre palle’: calcio, pallavolo e pallacanestro” (p. 34). La Cina entra quindi nel circuito delle gare internazionali che coinvolgono i Paesi del Patto di Varsavia, accompagnate dalle competizioni con i propri vicini asiatici. Dopo l’abbandono del Comitato olimpico internazionale e della Fifa per i contrasti su Taiwan, la Rpc si separa anche da Mosca, e il calcio attraversa la pagina buia della Rivoluzione culturale (in cui lo sport è ostracizzato perché incarna valori individualisti) in attesa dei primi spiragli di luce nei primi anni Settanta, con le partite contro Cuba, la Tanzania o l’Albania. Suscita ilarità e sconcerto – poiché sono passati 50 anni e sembra che provenga da un’epoca preistorica, in cui la specie umana era semplicemente un’altra specie – questa citazione del ricordo di un calciatore albanese: “Agli amici cinesi non potevo segnare un gol in quel modo, per di più contro la squadra del paese natale di Mao e avevo anche paura di un rimprovero. Mi sono fermato e non ho tirato e quando sono rientrato a centrocampo ho stretto la mano ai calciatori cinesi, in segno di amicizia. Loro rimasero stupefatti e dal megafono rimbombava l’augurio “viva l’amicizia”, (…) e “non ha nessun valore il gol rispetto all’amicizia” (p. 55).
Tutto – ancora una volta – cambia con le riforme di Deng Xiaoping, che ridà vigore al campionato a squadre e autorizza nuovamente le tournée della nazionale, preludio della professionalizzazione del calcio cinese che avviene nei primi anni ’90, quando i club – ormai ampiamente sponsorizzati dai colossi del capitalismo globale – sono autorizzati a reclutare giocatori e allenatori stranieri. Ma il calcio è riflesso della società in cui prospera, e nel 2009 la “Calciopoli del Dragone” trascina l’intero settore in uno dei casi di corruzione più gravi che abbiano mai coinvolto il mondo del pallone. Con la salita al potere, Xi Jinping – che ha fatto della lotta alla corruzione forse il suo principale cavallo di battaglia – muta registro e prepara il salto di qualità pronunciando (già nel 2011, prima di diventare Segretario del Pcc) “i tre desideri”, ovvero “qualificarsi per un’altra edizione della Coppa del Mondo”, ospitarla in Cina, “ed eventualmente vincerla” (p. 90). Chissà che Marcello Lippi, ora allenatore della nazionale, non ci riesca.
Poiché le squadre di calcio più blasonate sono ormai divenute multinazionali dell’intrattenimento globale, e poiché la liquidità disponibile per questo tipo di investimenti è notevole, c’è da giurare che la scommessa cinese possa essere vinta, e Storia del calcio cinese – resa in un italiano piacevolmente fluido, anche se con qualche refuso di troppo – ci aiuta a capire i motivi della nuova ossessione sportiva di Pechino. Anche se qualcuno potrebbe chiedersi – guardando agli Stati Uniti, un nano calcistico – perché mai tra gli attributi di una grande potenza si debba includere il grande calcio, e nutrire il dubbio che ancora una volta nella storia della Cina le iniziative top-down sul calcio non necessariamente producano i risultati (e, nell’era della globalizzazione calcistica, i profitti) sperati.
I libri recensiti in questa rubrica possono essere acquistati presso la Libreria Bodoni di via Carlo Alberto, 41, Torino.
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