Che la Cina non rientri nel novero dei Paesi più virtuosi per la protezione ambientale e lo sviluppo urbano sostenibile è noto. Essendo la Cina non solo il più grande inquinatore del mondo, ma anche uno dei paesi protagonisti dell’accordo raggiunto a Parigi nel 2015[1], da diversi anni l’accademia e la stampa internazionale hanno prestato attenzione alle condizioni ambientali dei suoi centri urbani e al contributo di Pechino alla mitigazione dei cambiamenti climatici. Nei ministeri di Pechino e a livello locale le amministrazioni sono ben coscienti della gravità dei problemi ambientali del paese e hanno prodotto leggi, regolamenti e piani di sviluppo per porvi rimedio. Ciò nonostante, le analisi più recenti indicano che il Paese, ad oggi, non ha fatto progressi significativi nella protezione dell’ambiente e nello sviluppo sostenibile.[2] In un simile contesto, è opportuno chiedersi da dove derivino i problemi che la Cina si trova oggi ad affrontare nel progredire verso un modello sostenibile di sviluppo. Questo articolo si propone di rispondere a questa domanda individuando le ragioni nell’assetto politico-istituzionale che è andato delineandosi in Cina a partire dall’avvio delle riforme per la modernizzazione economica e istituzionale del paese all’inizio degli anni ’80.
Con riferimento allo sviluppo urbano sostenibile, va ricordato che la Cina è stato il primo Paese ad aver tradotto le raccomandazioni dell’Agenda 21 in un piano di sviluppo nazionale, oltre ad aver incoraggiato i governi locali a fare altrettanto con l’adozione di uno specifico programma pilota.[3] Il primo di questi programmi è entrato a far parte di quei tipici strumenti che il governo cinese adotta per incentivare le città ad impegnarsi verso il raggiungimento di un determinato obiettivo; altri ne sono poi seguiti, elaborati da vari ministeri. È il caso, ad esempio, del programma “eco-città” del Ministero della protezione ambientale, dei primi anni 2000, e del più recente programma “città a basse emissioni di carbonio”, lanciato nel 2012 dalla Commissione nazionale per la riforma e lo sviluppo. Questi programmi sollecitano i governi locali a sviluppare piani di intervento settoriali, secondo le linee guida stabilite dai rispettivi ministeri. Se questi ultimi approvano le proposte delle città candidate, le proposte considerate migliori ricevono sostegno politico e finanziario. In seguito, i ministeri valutano le esperienze delle città selezionate ed estendono al territorio nazionale gli esempi di maggior successo. Contemporaneamente a queste iniziative nazionali e all’adozione di misure specifiche, Pechino si è anche impegnata in numerose collaborazioni internazionali, consapevole di dover acquisire know-how da paesi terzi. Tra queste merita particolare menzione la collaborazione con Singapore.[4] Singapore ha ottenuto infatti riconoscimenti a livello globale per aver fatto dello sviluppo sostenibile uno dei suoi fiori all’occhiello in termini di politiche pubbliche e scelte urbanistiche.[5] Pechino si è avvicinata con entusiasmo all’esperienza di Singapore, essendo la città-stato considerata un modello anche per altri aspetti di natura più prettamente politica, come la struttura di governo e la lotta alla corruzione.[6]
Le iniziative sopracitate, così come la collaborazione con Singapore, costituiscono una cartina di tornasole per verificare l’impegno preso dalle autorità cinesi in materia di sviluppo sostenibile. Tale analisi rivela che lo sviluppo urbano sostenibile rappresenta per la Cina un obiettivo difficile da raggiungere e che le ragioni di tale difficoltà vanno ricercate, in particolare, nell’assetto politico-istituzionale successivo all’avvio delle riforme nel 1979. Le riforme lanciate da Deng Xiaoping, caratterizzate da un processo di decentralizzazione fiscale e della governance del paese, oltre che dall’apertura internazionale della Cina, hanno generato sia una corsa dei governi locali alla crescita economica, sia un’importante competizione infra-nazionale e internazionale, che hanno ostacolato il perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. In particolare, la decentralizzazione fiscale, unita ad altre riforme che hanno favorito dinamiche speculative nella vendita dei diritti d’uso del suolo e la turbo-crescita del mercato immobiliare, hanno incentivato le autorità locali a perseguire lo sviluppo urbano come mezzo principale per generare ricchezza. Inoltre, la realizzazione di progetti immobiliari (residenziali e/o commerciali) ad alta redditività è diventata, nei decenni post-riforma, uno dei principali motori dello sviluppo economico locale, nonché fonte di considerevole gettito fiscale per i governi locali, giocando un ruolo chiave nel sistema di valutazione e promozione dei leader di partito. Le autorità locali hanno dunque avuto forti incentivi a espandere notevolmente le città e a realizzare progetti di sviluppo urbano che difficilmente si coniugavano con la protezione sociale e ambientale e con la sostenibilità della crescita economica. Questo è avvenuto nonostante esistessero leggi nazionali, regolamenti locali e piani regolatori e d’azione che indicavano chiaramente la necessità di perseguire uno sviluppo locale più bilanciato.
Tuttavia, se a Singapore ogni intervento sul territorio è normato al dettaglio, confrontato con i piani regolatori e accuratamente discusso dalle varie amministrazioni competenti – e in teoria condiviso con i cittadini –, in Cina vige un’altra prassi, ossia quella del lǐngdǎo juédìng (领导决定), letteralmente “il leader prende la decisione”. Agli occhi delle amministrazioni locali in Cina, tale prassi decisionale è del tutto equiparabile alle leggi e ai regolamenti vigenti a Singapore. Le decisioni di un sindaco o di un segretario di partito locale sono dunque tassative. A ogni nuovo mandato (in genere ogni quattro-cinque anni) gli amministratori di turno possono scardinare i piani stabiliti dalle amministrazioni precedenti e obbligare i dipartimenti sotto la propria giurisdizione a realizzare progetti che sono spesso in contrasto con le norme vigenti. Benché sia troppo presto per esprimere una valutazione complessiva e benché sia necessario differenziare e analizzare i singoli casi, anche la costruzione di eco-città si colloca sovente in questo quadro. Come in altri progetti di sviluppo urbano il cui obiettivo è quello di produrre ricchezza e generare entrate per i governi locali, il prefisso “eco-” è utilizzato come slogan per aumentare la competitività dei governi locali e così attirare investimenti e acquirenti, anziché sancire un reale impegno in direzione dello sviluppo (urbano) sostenibile.[7] Spesso questi progetti rappresentano anche un éscamotage per i nuovi sindaci per emendare i piani regolatori approvati dalle amministrazioni precedenti e/o dai livelli di governo superiori, costruendo su aree vergini, originariamente non incluse fra quelle edificabili.
Le ragioni di tali pratiche si trovano nelle dimensioni della Cina e nel suo assetto politico-istituzionale. Se nella città-stato di Singapore il Ministero per lo Sviluppo nazionale è in grado di definire una direzione di sviluppo a medio e lungo termine, di tradurre tale direzione in piani a breve termine e in precise direttive per le varie autorità preposte alla loro implementazione, imponendo precisi obiettivi previa discussione e coordinamento, ciò non è possibile in Cina. I ministeri in Cina hanno pari rilevanza e autorità delle province, il che significa che gli obiettivi decisi da Pechino devono sempre essere negoziati con i governi locali. La decentralizzazione ha poi fatto sì che le autorità locali abbiano ancora moltissima autonomia nel promuovere lo sviluppo urbano, mentre la grande estensione del Paese e le consuetudini esistenti in seno al sistema burocratico hanno indebolito i meccanismi di monitoraggio delle politiche: una dinamica che spiega il ben noto problema della difficile attuazione di leggi e politiche in Cina. Ciò non significa che tutti i governi locali agiscano nello stesso modo e che non vi siano amministrazioni che si battono per migliorare la qualità della vita e dell’ambiente nelle loro città. Tuttavia, finché la decisione dei leader locali risponderà a interessi particolaristici in grado di prevalere su leggi e linee d’indirizzo comuni, la strada della Cina verso uno sviluppo urbano sostenibile rimarrà accidentata.
[1] Si vedano: Elizabeth C. Economy, The River Runs Black. The Environmental Challenge to China’s Future (Ithaca: Cornell University Press, 2004); e Paul G. Harris (a cura di), China’s Responsibility for Climate Change. Ethics; Fairness and Environmental Policy (Bristol e Portland, Policy Press, 2011).
[2] Jean-Paul Maréchal (a cura di), La Chine face au mur de l’environnement (Parigi: CNRS Editions, 2017).
[3] Il Programma d’azione Agenda 21, che indica i principi generali per promuovere lo sviluppo sostenibile sul pianeta, è il documento principale emerso dal vertice della Terra di Rio del 1992, precipuamente incentrato su questo tema.
[4] In merito, vedi in particolare il progetto dell’eco-città di Tianjin.
[5] Tai-Chee Wong, Belinda Yuen e Charles Goldblum (a cura di), Spatial Planning for a Sustainable Singapore (New York: Springer, 2008).
[6] Kean Fan Lim e Niv Horesh, “The ‘Singapore fever’ in China: policy mobility and mutation”, The China Quarterly (2016) 228: 992-1017.
[7] Vedi C.P.Pow e Harvey Neo, “Seeing red over green: contesting urban sustainabilities in China”, Urban Studies 50 (2013) 11: 2256-2274.
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