Viet Thanh Nguyen, Il simpatizzante, Vicenza: Neri Pozza, 2016
Saigon, aprile 1975. Mentre la capitale crolla davanti all’avanzata dei Vietcong, un manipolo di militari e funzionari, con famiglie al seguito, cerca di salire sull’ultimo aereo in partenza dal Vietnam del Sud. Basta la plastica, vividamente scenografica, descrizione di questa scena – degna di film entrati nel mito come Apocalypse Now – a farci capire che ci troviamo davanti a uno dei più intensi romanzi degli ultimi anni, vincitore del Premio Pulitzer 2016, definito “miglior libro dell’anno” da testate blasonate quali il New York Times e il Guardian.
Il protagonista – Il Capitano – fa il doppiogioco: è il braccio destro del Generale, il militare d’alto rango del Vietnam del Sud che con lui fugge negli Stati Uniti, ma è anche il confidente di Man, suo addestratore tra i Vietcong. Profondo conoscitore di questi tre mondi (con studi universitari in America alle spalle) – e alter ego dell’autore, docente di letteratura americana in California –, Il Capitano porta nel DNA il marchio dell’ambiguità, essendo figlio di una donna vietnamita e di un prete cattolico francese, che ovviamente non l’ha mai riconosciuto. Solitario, pronto a macchiarsi di omicidio pur di non dovere svelare la propria identità, il protagonista sembra accettare che dalla doppiezza non ci sia – non ci possa essere – via d’uscita, perché è ormai “un uomo con due menti diverse” (p. 9). Non è insensibile (“a parte la mia coscienza, il fegato era la parte del mio corpo più malconcia”, p. 158), ma un razionale calcolatore del rapporto costi/benefici delle proprie azioni.
In larga parte ambientato negli Stati Uniti, all’interno della comunità anti-comunista vietnamita che complotta la Reconquista del Vietnam, Il simpatizzante contiene anche un feroce ritratto dei miti americani: coinvolto nella produzione di un film sulla guerra in Vietnam (chiaro ancora una volta il riferimento a Francis Ford Coppola, reso esplicito nei Ringraziamenti), il protagonista si scaglia contro i miti di Hollywood, un “mostro” abile a “trasformare la storia in un cielo aperto, lasciando i fatti veri nelle profondità dei tunnel sotterranei (…), ed estraendo solo qualche diamante scelto, per lo stupore e l’emozione del pubblico “(p. 184); incaricato di raccogliere fondi per portare a termine l’impresa, riflette sul ruolo dei rifugiati (o degli ultimi) “all’interno del Sogno Americano, che consisteva nell’essere così infelici da rendere gli altri americani grati per la loro felicità” (p. 196); sul set del film capisce la manipolazione degli eventi storici, a svantaggio del popolo vietnamita: “siete venuti proclamandovi nostri amici, e non abbiamo saputo capire che non sareste mai arrivati a fidarvi di noi, e che non ci avreste mai rispettati” (p. 223). Ai suoi occhi, l’America vista da dentro sembra contenere, nella sua trionfale tracotanza, i germi di quel che l’America è al di fuori: “Hollywood non faceva che prendere d’assalto le difese mentali del pubblico (…) Non importava di cosa parlassero le storie che venivano propinate (…) Si trattava sempre di storie americane, e gli spettatori avrebbero continuato a adorarle, almeno fino al giorno in cui non fossero stati bombardati da quegli stessi aerei che avevano visto sul grande schermo” (p. 235). I rifugiati in addestramento per la grande impresa contro i Vietcong “si stavano finalmente trasformando in veri americani”, poiché “dopo tutto, non c’era nulla di più americano che imbracciare un fucile e prepararsi a morire per la libertà e l’indipendenza, a parte forse imbracciare quello stesso fucile per portare via la libertà e l’indipendenza a qualcuno” (p. 294): una prodigiosa e assai rara sintesi dell’eccezionalismo americano, nella sua essenza.
In una società siffatta, in preda allo spaesamento degli esuli, avvolti dalla banalità dei piccoli lavori quotidiani per sopravvivere, e privi di voce in capitolo (“Ma si sono scordati di dirci che, in cambio di quella salvezza, ci avrebbero tagliato le palle, e anche la lingua”, p. 301), il Generale e la sua banda preparano il riscatto, lanciandosi dritti verso il loro destino. In un rapido susseguirsi di eventi, tra giungle, esplosioni, torture, prigioni, interrogatori, è in Vietnam che alla fine Il Comandante si troverà a dovere fare i conti con la propria storia, con la difficoltà di non dovere pagare un prezzo per l’ambiguità, e con il dilemma della rivoluzione che divora i propri figli (un tema caro a Tiziano Terzani, la cui opera Giai Phong!: La liberazione di Saigon è citata non a caso nelle fonti): “Che cosa fanno le persone che lottano contro il potere, quando lo conquistano? Che cosa fa un rivoluzionario, quando la rivoluzione trionfa? Perché chi reclama l’indipendenza e la libertà finisce sempre per privarne gli altri?” (p. 506).
Il libro non fa sconti al lettore, scende negli abissi dell’abiezione, fluisce nei labirinti della mente umana, ne esplora le contraddizioni, gli slanci, le follie apparentemente razionali. L’autore crea un universo profondamente e radicalmente maschile, in cui la donna è puro oggetto, necessaria distrazione in un mondo spietato, con l’unica eccezione della madre, la sola figura di speranza il cui ricordo aleggia ovunque ed entra prepotentemente in scena ogniqualvolta Il Capitano rimpiange il giardino della vita e dell’infanzia, un giardino che la madre ha voluto curare contro la vergogna sociale di mettere al mondo il figlio di un prete, e per di più mezzosangue. Amaro, amarissimo, psicologicamente violento, orribilmente umano, Il simpatizzante inchioda alla lettura pagina dopo pagina, in un crescendo di suspense che spinge il lettore a voler conoscere la fine, se di fine si tratta, del protagonista. Se appare esagerato – come ha fatto il New York Times – paragonare Thanh Nguyen a mostri sacri quali Conrad, Greene e le Carré (e aggiungerei a Somerset Maugham), è solo perché un paio di snodi narrativi (la storia d’amore e la fine dell’esperienza cinematografica) appaiono relativamente prevedibili o improbabili. Un peccato veniale (d’altronde, è incredibilmente un romanzo d’esordio e qualcuno ricorderà il non proprio riuscito espediente del terremoto utilizzato da un giovane George Orwell in Giorni in Birmania) non sminuisce la solidità di un libro che, osannato dalla Vietnam Veterans of America come il grande romanzo sulla Guerra nel Vietnam, è in realtà un grande romanzo su tutte le guerre, e, in fondo, una disturbante scossa di riflessione sull’incredibile, magnifica e terrificante avventura umana. Infatti l’autore ha dichiarato che nel libro ci sono offese per tutti.
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