Che Cina ed Europa potessero giungere ad avere interessi e preoccupazioni di sicurezza condivisi o contrapposti, ma in ogni caso comuni, sembrava – più o meno sino al 2010 – un’ipotesi ben lontana dal potersi un giorno realizzare. Più che la considerevole lontananza geografica era infatti la pressoché completa reciproca estraneità dei due protagonisti negli ultimi sessant’anni che finiva col condizionare una percezione almeno in parte ancorata a stereotipi ormai sorpassati dai fatti e dalla storia.
Diverso invece il caso dell’Alleanza atlantica, inevitabilmente condizionata dalla presenza di un’America che aveva iniziato molto presto a considerare Pechino come il più immediato – e quindi il più pericoloso – dei potenziali aspiranti a sostituirla al vertice della leadership mondiale. Un peccato mortale per un paese che – come gli Stati Uniti – non sopporta l’idea di essere considerato una potenza in declino, destinata, in un giorno ormai non molto lontano, a non essere più la prima superpotenza.
Così, almeno sin dall’inizio di questo secolo, la crescente preoccupazione americana per la crescita cinese ha finito con l’estendersi anche alla Nato: rimanendo all’inizio una preoccupazione vaga e lontana, ma divenendo molto più attuale nel momento in cui l’Alleanza ha superato tutti i vincoli di membership, di missione e di area geografica previsti dal suo trattato costitutivo per guidare un’articolata “coalition of the willing” in una missione afgana che si sta concludendo solo ora in un crepuscolo pieno di incertezze. Con tale missione la Nato entrava a gamba tesa in Asia centrale, in una zona che si poteva considerare come un “backyard cinese”, secondo la terminologia americana, o come un “near abroad di Pechino” secondo quella russa. La presenza più che decennale dell’Alleanza in Afghanistan, oltre ad avere un effetto stabilizzante per tutta l’area, ha permesso altresì alla Cina di non impegnarsi direttamente nel contenere l’espansione dell’estremismo islamico e il suo travaso dall’area pashtun afgana a quella uigura cinese. Un fatto che spiega perché Pechino abbia tollerato per un periodo tanto lungo la presenza Nato in zone così prossime al suo territorio nazionale senza tentare di contrastarla in alcun modo e in alcuna sede.
Le difficoltà e i contrasti che potrebbero insorgere fra Pechino e l’Alleanza si concentrano così al momento soltanto sul contenzioso in atto nel Mar cinese meridionale, rimanendo, quindi, sino a prova contraria, unicamente potenziali. Almeno in teoria la Nato dovrebbe infatti rimanere del tutto indifferente a una disputa tanto lontana dalla sua area e così estranea ai suoi interessi. Se però le cose dovessero avviarsi su una china negativa, un’eventuale presa di posizione dura da parte degli Stati Uniti non potrebbe non ripercuotersi sull’Alleanza, ove l’azione congiunta di Washington e di un establishment Nato alla disperata ricerca di missioni che ne giustifichino la sopravvivenza finirebbe probabilmente col tradursi in qualche forma di coinvolgimento. Un indizio di quanto potrebbe succedere è dato tra l’altro dal fatto che la Nato ha già da tempo rapporti particolari con il Giappone, mentre non ne intrattiene alcuno con la Cina.
All’aleatorietà dei rapporti della Cina con la Nato nel settore della sicurezza si contrappone la sostanziale stabilità di quelli con l’Unione europea, rimasti invece molto buoni, nonostante esistano fra i due protagonisti contenziosi – in atto e potenziali – che potrebbero col tempo rivelarsi pericolosi, e malgrado il fatto che i paesi dell’Unione siano al contempo, in maggioranza, anche membri dell’Alleanza atlantica. Un comportamento vagamente schizofrenico da parte di alcuni protagonisti che seguono in pari tempo – nelle due diverse sedi – politiche in parte divergenti fra loro? La dimostrazione di quanto fortemente si possa far sentire in ambito Nato l’influenza degli Stati Uniti, che invece possono influire soltanto indirettamente sull’Unione?
Questo e altro, certamente, ma allo stesso tempo anche la piena coscienza di come la Cina possa progressivamente evidenziarsi come un partner importante e un protagonista di assoluto rilievo non soltanto nell’ambito politico ed economico ma anche in quello della sicurezza comune. Molto gradualmente, la Cina è effettivamente riuscita ad avvicinarsi all’Europa, per lo meno per tramite delle proiezioni di forza oltremare. In Africa la presenza cinese si è progressivamente infittita negli ultimi vent’anni, arrivando a coprire con una rete capillare più o meno tutti i paesi del continente. E non si tratta certamente di piccoli numeri: quando dovettero evacuare i connazionali dalla Libia in fiamme, i cinesi trassero in salvo oltre 35mila persone. In parallelo alla crescita di tale presenza è altresì aumentata ovunque anche l’influenza cinese, ovviamente a discapito di preesistenti condizioni di privilegio, per la gran parte inglesi o francesi. L’Europa si trova quindi a confrontarsi, in questo momento, con l’influenza crescente di un paese che è una grande potenza e che sempre più afferma la propria presenza sulla sponda meridionale del Mediterraneo, attraverso un processo che almeno potenzialmente potrebbe instradarla su una rotta di collisione con le due maggiori potenze militari dell’Unione.
La presenza cinese nel Mediterraneo e in zone contermini si esprime poi, ogni giorno di più, anche in altre forme che più direttamente coinvolgono il concetto di sicurezza. Contingenti di Pechino sono schierati da tempo con le forze Onu in Libano e nel Mali. La Marina cinese è reduce da recenti manovre congiunte con quella russa nel bacino orientale del Mare nostrum. Contemporaneamente, essa coopera con le Marine Nato nell’azione anti-pirateria a sud di Suez. Il Ministero degli affari esteri cinese ha evacuato qualche mese fa dallo Yemen travolto dalla guerra civile i connazionali a rischio – questa volta circa 600 – preoccupandosi inoltre di trarre in salvo anche i resortissants dell’Unione europea. Un bel gesto nei confronti dell’Europa, e una chiara dimostrazione di programmata efficienza. Nel contempo, però, Pechino continua a insistere in tutte le sedi possibili perché l’Ue si decida a rispettare le promesse – più volte fatte e mai tradotte in realtà – di porre fine a un embargo sull’esportazione di armamenti in Cina che pressioni americane e veti inglesi hanno sino a questo momento impedito di revocare.
In un certo senso si ha l’impressione di essere dinanzi a un articolato disegno strategico, quasi una enorme e complessa tela che di giorno in giorno sempre più si infittisce ed è probabilmente destinata a ricevere ancora maggiore impulso dal colossale progetto cinese di ripristino e ampliamento delle antiche “Vie della seta”, l’una terrestre e l’altra navale, che, partendo dalla Cina, avranno entrambe come terminali paesi dell’Unione. Considerando come esse dovrebbero essere destinate a incrementare in grande misura flussi di commercio già ora molto consistenti, si comprende con facilità quale possa essere domani la dimensione dei problemi di sicurezza che Ue e Cina dovranno essere in condizione di gestire insieme.
Sorgono però spontanei, a questo punto, due fondamentali interrogativi destinati a rimanere entrambi senza risposta, almeno per il momento. Il primo riguarda la capacità di un’Ue che è ancora priva di una vera politica estera e di sicurezza comune di affrontare sfide di queste dimensioni e complessità. Il secondo consiste invece nel chiedersi se e fino a quando durerà l’interesse europeo nel mantenere in vita un’Alleanza atlantica che ha già pesantemente contribuito a guastare i rapporti tra l’Europa e la Russia e che rischia di porci in tensione, in futuro, anche con la Cina.
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