L’Europa, molto più che gli Stati Uniti o il Giappone, ha appoggiato l’ascesa della finanza cinese e il processo di internazionalizzazione del renminbi, la moneta cinese. Il punto di svolta si è registrato nello scorso dicembre, quando il renminbi è entrato nel paniere dei diritti speciali di prelievo (dsp) del Fondo monetario internazionale (Fmi), grazie anche – e soprattutto – agli europei che fin dalla fine degli anni Novanta hanno guardato con interesse alla moneta cinese e alla possibilità che questa, una volta convertibile a tutti gli effetti, diventi uno dei pilastri, insieme al dollaro Usa e all’euro, dell’ordine monetario internazionale.
Il Regno Unito ha fatto da traino in questo campo. Ma dopo il referendum sulla Brexit le banche della City potrebbero perdere l’accesso al mercato unico, cosa che induce il governo cinese a valutare se spostare parte del clearing del renminbi – e dei servizi collegati ad esso – verso le piazze del continente, in primis Francoforte, Parigi, Lussemburgo – ma anche Milano. Una dinamica dalle importanti ripercussioni per le relazioni sino-europee, ma anche per i rapporti transatlantici.
Sostegno europeo al renminbi
Durante il negoziato per la revisione quinquennale del paniere di valute ricomprese nei dsp del Fmi, conclusosi ai primi di dicembre del 2015, l’Europa è stata l’alfiere dell’allargamento del numero di valute da 4 a 5, con l’inclusione del renminbi, valuta non convertibile ma fortemente circolante. Un evento che per la finanza internazionale potrebbe essere paragonabile, per impatto strategico, a ciò che è stato per il commercio globale l’entrata della Cina nell’Omc nel 2001.
Il match tra il governatore cinese Zhou Xiaochuan e il direttore del Fmi Christine Lagarde, dunque, si è deciso in Europa. Stati Uniti e Giappone, da soli, non avrebbero avuto la forza sufficiente per mettere alla porta i cinesi rispedendo al mittente le loro richieste. Sui dsp la Cina ha puntato con forza, vedendolo come trampolino di lancio per incentivare in tutti i modi l’internazionalizzazione del renminbi e prendere il volo verso una conversione totale che potrebbe avvenire ben prima del 2020.
I dsp sono attività di riserva in valuta estera internazionali. Assegnati alle nazioni del Fmi, tali valute rappresentano un gruppo di divise estere che possono essere scambiate nei momenti di bisogno. Anche se denominati in dollari Usa, il valore nominale di un dsp è derivato da un paniere di valute, con, in particolare, un importo fisso di yen, dollari, sterline, euro, a cui si è aggiunto appunto, dallo scorso anno, anche il renminbi.
Con l’ingresso del renminbi nel paniere del Fmi gli istituti che già detengono tale moneta, almeno una sessantina, tra i quali si annovera anche la Banca d’Italia, hanno dovuto convertire in renminbi anche i dsp che detenevano, con un aumento delle riserve nella valuta di Pechino. Occorre ricordare che già nell’ottobre del 2013 la Banca centrale cinese e quella europea firmarono un accordo swap per un totale di 45 miliardi di euro (350 miliardi di renminbi), il più grande siglato da Pechino al di fuori dell’Asia. Nel novembre 2014 la Bce ha ufficialmente aperto la discussione interna sull’ammontare dei renminbi da aggiungere alle sue riserve.
La Banca centrale britannica, dal canto suo, nell’ottobre del 2014 ha raccolto 3 miliardi di renminbi attraverso titoli del Tesoro denominati nella moneta cinese, tenendoli poi tra le sue riserve, invece di convertirli in dollari Usa come aveva invece sempre fatto nel passato. Nell’ottobre dell’anno successivo, durante la visita di Stato di Xi Jinping a Londra, il governo britannico è stato prescelto per la prima emissione di bond cinesi denominati in renminbi.
L’Europa è anche la sede prediletta di un numero crescente dei cosiddetti renminbi hubs, ovvero clearing banks per la moneta cinese. Conosciuti anche come Rmb qualified foreign institutional investors (Rqfii), si trovano prevalentemente in Europa, in città quali Londra, Francoforte, Parigi, Lussemburgo, ma anche Praga, Budapest, Milano e Zurigo. I crescenti legami monetari tra Europa e Cina spiegano la decisione della Gran Bretagna, seguita da Germania, Francia e Italia, di diventare membri fondatori della Asian infrastructure investment bank (Aiib), nonostante le pressioni statunitensi affinché ne restassero fuori.
Freno Usa alla finanza cinese
Mentre l’Europa apre al renminbi e alla finanza cinese, le grandi banche americane continuano a mettere freni all’attivismo di Pechino nel conquistare altro spazio nel salotto buono della finanza mondiale, come dimostrato dal rifiuto, l’ennesimo, di Msci di includere nel suo index dei mercati emergenti le blue chip cinesi. A metà giugno è arrivato infatti il terzo no, il più sofferto, perché Pechino stavolta considerava scontata una risposta positiva. La diffidenza di Msci è stata dettata, a sentire gli addetti ai lavori, dallo scarso appeal del renminbi, moneta non convertibile che coltiva grandi pretese legate – come ha dimostrato l’ingresso nel paniere dei dsp del Fmi – al suo essere tradeable, quindi dall’utilizzo commerciale ampio e innegabile.
Più che una dimostrazione di sfiducia nella trasparenza dei mercati finanziari cinesi, la decisione di Msci riflette il fatto che, nonostante i recenti sforzi di Pechino nel liberalizzare il mercato dei capitali (tra questi l’apertura del mercato obbligazionario onshore) e nell’imporre norme più severe per proteggere la liquidità, gli investitori globali hanno scelto di rimanere in disparte proprio a causa di timori per il rischio-renminbi e le difficoltà operative di gestire la moneta in sé. Il 70% del totale di tutte le transazioni in renminbi fuori dalla Cina sono ancora fatte a Hong Kong, per un giro di affari di circa 800 miliardi al giorno.
Sei anni di strisciante processo di internazionalizzazione della valuta cinese hanno comunque lasciato il segno: non ci sono solo le banche centrali che stanno investendo nel renminbi; la moneta cinese è già la seconda più importante valuta di finanziamento del commercio mondiale, la sesta moneta più intermediata in borsa e ha superato, per quantità di utilizzo, i dollari canadesi e australiani, secondo l’organizzazione globale di servizi di transazione Swift.
Il sostegno europeo alla moneta cinese è una mossa lungimirante, oltre che un messaggio politico indirizzato ai riformatori cinesi. La Brexit potrebbe accelerare questa dinamica. Il rischio è che si accentui, però, il divario con gli Usa che, gelosi di mantenere il predominio del dollaro, guardano con riserva all’ascesa del renminbi e al ruolo che giocano gli alleati europei nel promuovere la finanza cinese.
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