Leila S. Chudori, Ritorno a casa, Atmosphere libri, Roma, 2015
Trenta settembre 1965. Il generale Suharto, capo della forza di riserva strategica dell’esercito indonesiano, approfitta delle accuse al partito comunista indonesiano di avere organizzato un colpo di stato contro il presidente Sukarno, per prendere egli stesso il potere. Inizia così una vera e propria “caccia all’uomo” che prenderà di mira non solo i leader e gli iscritti al partito comunista, ma anche tutti coloro ritenuti, a torto o a ragione, suoi simpatizzanti, senza escludere i loro amici e familiari. Ritorno a casa racconta la storia di cinque amici a partire da quel giorno, che li vede colleghi all’ufficio stampa Nusantara, fino agli eventi del maggio 1998, quando Suharto, spinto dalla crisi economica e sociale che colpisce anche gli altri paesi asiatici, si dimette, aprendo in tal modo la nuova stagione dell’Indonesia democratica.
Il romanzo di successo della giornalista e scrittrice Leila Salikha Chudori, tradotto in più lingue, è un viaggio nella dimensione dell’esilio e della lontananza che ha pervaso un’intera generazione di indonesiani. Se infatti dopo il 30 settembre uno dei cinque amici (Hananto Prawiro) viene subito catturato e qualche tempo dopo giustiziato, gli altri quattro (Dimas Suryo, Nugroho Dewantoro, Tjai Sin Soe e Risjaf) si ritrovano presto a Parigi, privati del proprio passaporto e della possibilità di fare ritorno in Indonesia. Per guadagnarsi da vivere, ma anche per recuperare i sapori, gli odori, le atmosfere della patria perduta, aprono il ristorante Tanah Air (“Patria”), un luogo reale della scena gastronomica etnica della capitale francese. In una continua alternanza di flashback, epistolari, descrizioni di personaggi, il libro attraversa i decenni con levità, consegnandoci anche un affresco del cambiamento sociale, sia esso rappresentato dalla fine dei sogni del maggio francese, o dalla realtà della nuova borghesia corrotta di Giacarta. A tratti, il romanzo sembra pronto per la trasposizione cinematografica: la cena di presentazione tra le famiglie dei futuri sposi Rama e Rininta – una delle scene più memorabili del romanzo -, in cui sembra di vedere le forchette sospese immobili nell’aria raggelata, sarebbe stata perfetta per un film di James Ivory, regista che ha spesso narrato la tensione tra i sentimenti affettivi e le convenzioni di classe.
Questa virtuale isola indonesiana nel cuore dell’Europa ruota attorno alla storia personale di Dimas (la voce narrante della prima parte del libro), e del suo rapporto con la moglie Vivienne e con la figlia Lintang. Le storie di esilio politico si nutrono di lacerazione, e la vita di Dimas rientra in questo canone. Obbligati a stare lontani da casa, gli esiliati muoiono lentamente dentro, incapaci di riprogrammare il sangue per irrorare nuovamente il proprio spirito vitale. E più lo spirito trova nella lotta politica un apparente e illusorio aggancio di salvezza, più l’irraggiungibile obiettivo allontana l’esiliato dalla felicità – una felicità più semplice, più legata ai momenti quotidiani, ma alla fine molto più umana delle sirene del potere, se fosse davvero alla portata. L’addizione diviene invece sottrazione e rende doppiamente infelici: per non avere potuto dirigere il mondo e per non essere nemmeno riusciti a governare se stessi. “C’era qualcosa che gli mancava, qualcosa che desideravo tanto toccare e conoscere. C’era una tristezza nei suoi occhi cui avrei voluto porre rimedio e c’era una capacità di resistere e lottare senza eguali. La capacità di resistere e respingere le tempeste sulla sua vita. Nonostante questa abilità, questa forza, poteva raggiungere livelli ossessivi. Forse tutti gli esiliati politici in qualunque paese condividevano quella caratteristica: l’animo per lottare li rendeva ossessionati dall’idea di raggiungere il loro obiettivo. … C’era qualcosa che gli impediva di essere davvero felice.” (p. 186).
Dov’è la nostra casa? E se la casa del corpo e l’abitazione della mente non coincidono più? Se le zone di conforto fisico e gli spazi mentali agognati non sono sulla stessa lunghezza d’onda? “Casa è dove si trova la tua famiglia.” Raggiunsi Dimas in terrazza cercando di trattenere il mio punto di vista senza offenderlo. “Casa è il posto dove sento di poter fare ritorno” fu la sua risposta. Fredda. Secca.” (p. 190).
La lacerazione porta allora inesorabilmente alla separazione, ma è accettando quest’ultima che si possono tracciare percorsi di redenzione. Così, solamente dopo la fine del matrimonio con Vivienne, Dimas riprende a dialogare con la figlia Lintang, che raccoglie il testimone del racconto nella seconda parte del libro e trasporta, riunita ai figli degli amici di un tempo, il coraggio della libertà nelle strade di Giacarta, anche al prezzo di affrontare scelte personali difficili. Ma già potere scegliere è un lusso che il padre non poteva permettersi. Sapeva che si può tornare a casa un giorno, ma non si ritorna mai dall’esilio, perché è diventato parte di te: è lui che ti ha scelto, e non è data possibilità di separarsi. E, quindi, nemmeno di redimersi fino in fondo.
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