Gli spazi pubblici giocano da sempre un ruolo chiave nello sviluppo urbano, rappresentando l’essenza di ogni città. Lo sapevano bene gli antichi romani, i greci e gli egizi. Nell’antica Roma, per esempio, ricchi patrizi e giovani dei ceti più umili si mescolavano all’interno di spazi pubblici – come le famose terme romane – che offrivano gratuitamente a tutti, senza distinzioni di genere, etnia o status economico, luoghi di intrattenimento e relax. Ancora oggi, il ruolo principale dello spazio pubblico è proprio questo: ridurre le barriere create da profonde ineguaglianze socio-economiche e offrire servizi comunitari anche ai gruppi sociali più svantaggiati. Uno spazio pubblico ben progettato aumenta il senso di appartenenza e vicinanza dei cittadini, favorendo coesione e mixité sociale e contribuendo quindi a combattere la segregazione cittadina.
Gli esperti parlano oggi dell’emergere delle cosiddette “città fragili”, cioè ambienti urbani in cui la forte urbanizzazione, spesso non regolamentata e mal gestita, ne aumenta la vulnerabilità a fronte di povertà, marginalizzazione, criminalità e violenza. Tale fenomeno, benché di portata globale, è più probabile che si verifichi in città situate in paesi politicamente instabili o colpiti da guerre e conflitti civili in cui il contratto sociale fra autorità e cittadini è compromesso e alimentato dalla scarsa fornitura di servizi di base. Circa un terzo di tutte le città che registrano un alto livello di fragilità si trovano in stati altrettanto fragili.
Molte delle realtà che hanno sperimentato situazioni di conflitto e che hanno vissuto violenze etniche, religiose e culturali, devono fare i conti con delicati e complessi processi di pace e riconciliazione. In questi contesti considerare gli spazi fisici come mezzi di coesione e riappacificazione è fondamentale in quanto è lì che le persone vivono la loro quotidianità, incontrandosi e interagendo fra loro, ed è lì che prendono forma le divisioni e i contrasti che hanno portato al conflitto che si cerca di superare. Gli spazi pubblici, in particolare e come già anticipato, possono giocare un ruolo chiave nell’abbattimento delle barriere e delle differenze sociali. La chiave di ciò si trova proprio nella definizione stessa di “spazio pubblico”: un’area accessibile e fruibile a tutti gratuitamente. In questo senso, gli spazi pubblici rappresentano quindi i luoghi della vita collettiva di una comunità, percepiti come fondamento di un’identità collettiva e al tempo stesso espressione della diversità. In molti casi, è in questi luoghi che anche le città più fragili hanno sviluppato meccanismi di resilienza: sebbene le politiche sociali possano aiutare a superare i problemi, la sicurezza – oggettiva e percepita – nelle città è infatti spesso radicata nelle relazioni e reti informali che si formano negli spazi pubblici. È perciò di primaria importanza considerare il ruolo che un’attenta pianificazione dello sviluppo urbano può avere nel facilitare i processi di pace e ridurre la violenza e la criminalità.
Per esempio, in Sud Africa, nell’ambito del programma “Violence Prevention through Urban Upgrading” (VPUU), alcuni designer e architetti hanno lavorato in collaborazione con la comunità del difficile quartiere di Harare Khalyelitsha (Cape Town) alla creazione di spazi pubblici che facessero sentire i cittadini al sicuro da crimine e violenza. Grazie a un approccio partecipativo, più sensibile alle dinamiche locali, e alla creazione di aree comunitarie e zone pedonali ben studiate, gli omicidi sono diminuiti del 33 per centro e la qualità della vita nel quartiere è migliorata sensibilmente. Ciò non solo dimostra quanto gli spazi pubblici influenzino la qualità della vita delle persone, ma anche – e soprattutto – come iniziative simili possano contribuire in maniera significativa alla coesione sociale e alla prevenzione della violenza sociale nelle città, tanto da rendere la pianificazione urbana un possibile strumento di trasformazione dei conflitti, indipendentemente dalla loro natura d’essere, e di supporto a lunghi e tortuosi processi di pace e ricostruzione, come nel caso somalo.
Mogadiscio, capitale della Somalia, continua a ricoprire i titoli dei giornali a causa del suo passato turbolento e dei ripetuti attacchi terroristici. Pensare a Mogadiscio e ai suoi spazi pubblici evoca quindi immagini inquietanti: una città distrutta, piegata da anni di violenza e privata completamente (o quasi) dei giardini, dei bei viali alberati e delle belle piazze che fecero sì che le venisse attribuito il titolo di “perla bianca dell’Oceano Indiano” prima dello scoppio della guerra civile.
La Somalia, un tempo stato pacifico e florido (tanto da venire definita “la Svizzera dell’Africa”) si trova oggi a doversi risollevare dopo oltre 25 anni di instabilità politica iniziata nel 1991 quando clan e gruppi armati riuscirono a rovesciare il governo di Siad Barre, destabilizzando completamente la nazione e portando allo scontro tra due principali fazioni rappresentate da Ali Mahdi e il Generale Aidid. Il conflitto civile distrusse le città somale e affamò la popolazione, tanto che a metà degli anni Novanta le Nazioni Unite avviarono la missione “Restore Hope”. Quest’ultima, purtroppo, fu fallimentare, e contribuì a una maggiore instabilità protrattasi fino ai primi anni 2000, quando venne creato un debole governo provvisorio.
Oggi la Somalia non è più quella degli anni Novanta ma resta in ogni caso una realtà complicata. Il conflitto ha portato con sé anni di discriminazioni tribali che a loro volta hanno aumentato il livello di marginalizzazione e disuguaglianza sociale, compromettendo ulteriormente le dinamiche di interazione pacifica fra gruppi diversi. Con una popolazione di oltre due milioni di persone, il ritorno di parte della diaspora in patria, e una crescita demografica che si aggira intorno al 7 per cento, Mogadiscio risulta particolarmente vulnerabile. Tra il caos e l’insicurezza della capitale somala, ci sono però luoghi – spesso ignorati dai media e dalla narrativa dominante – che caratterizzano il tessuto urbano della città e che ben rappresentano il rapporto che esiste tra miglioramento della vita nei centri urbani e mitigazione della violenza: il Lido Beach e il Beerta Nabada, o Giardino della pace.
Lido Beach è una di quelle fantastiche risorse naturalistiche di cui la Somalia dispone ed è oggi senza dubbio uno dei luoghi di Mogadiscio maggiormente vissuti da parte di tutta la comunità. Il venerdì, in particolare, la spiaggia si riempie di persone che giocano a calcio, nuotano, passeggiano o semplicemente chiacchierano sotto i raggi del sole. Dopo anni di conflitto interno questa spiaggia rappresenta un luogo di normalità e di rifugio dai problemi e dalle preoccupazioni giornaliere, un luogo in cui tutti, indipendentemente da clan, ceto sociale e genere trovano serenità e pace. L’uso della spiaggia è incentivato anche dagli alberghi e dai locali che rendono tale spazio fruibile anche la notte. Una considerazione importante nasce dal fatto che la spiaggia non è protetta da barriere anti-terrorismo o posti di blocco, il che potrebbe sembrare un’anomalia in un contesto in cui gli attentati sono ancora frequenti. Questo però, non diminuisce la percezione di sicurezza da parte di chi usufruisce di questo spazio. Anzi, l’assenza di protezioni ha esattamente l’effetto opposto: trovandosi a passeggiare su di essa, si perde completamente la percezione di trovarsi in una zona a “rischio” in una città già di per sé considerata fra le più pericolose al mondo. Lì, la presenza sporadica di forze dell’ordine a piedi o talvolta su mezzi armati non trasmette quel sentore di insicurezza che invece si avverte in altre aree della città o all’uscita dall’aeroporto di Mogadiscio, dove si è circondati da barriere, posti di blocco e forze dell’Unione Africana su mezzi blindati. Per la percezione di sicurezza che offre, Lido Beach si posiziona quindi in forte contrasto con l’idea di una Somalia ancora in guerra e ciò è nettamente vissuto dalla popolazione locale che su questa spiaggia trova una dimensione di serenità e tranquillità accessibile a tutti.
Come nel caso di Lido Beach, anche il giardino Beerta Nabada è uno dei posti più visitati della capitale. Esso rappresenta un’oasi di pace all’interno di una città architettonicamente piegata, un’oasi verde priva dei detriti e delle macerie che invece caratterizzano il centro urbano. A pochi minuti da Villa Somalia, la residenza ufficiale del Presidente della Repubblica somala, nel distretto di Waberi, il giardino è diventato un simbolo di pace e risorgimento, passaggio di rito per studenti neolaureati, giovani coppie e centinaia di famiglie che quotidianamente passeggiano e bevono tè all’ombra delle palme. A differenza di Lido Beach, però, il giardino Beerta Nabada non può essere considerato uno spazio pubblico a tutti gli effetti poiché fruibile previo pagamento di una piccola somma di denaro. Inoltre, prima di accedere al giardino, si viene perquisiti dalle forze armate all’ingresso – cosa che necessariamente crea un netto distacco tra il “dentro” e il “fuori”. Il fatto che il Giardino della pace sia comunque uno dei posti più vissuti della città ben esemplifica l’importanza vitale che questo genere di luoghi ha per la popolazione: a Mogadiscio, così come in tutta la Somalia, gli spazi comuni rappresentano sicuramente spazi non solo fisici, ma anche sociali, di coesistenza, come dimostrato dai due casi considerati.
Trascurare gli aspetti contestuali e i fattori che stanno alla base di un conflitto, rischia però di compromettere – in tutto o in parte – il potenziale che questi luoghi hanno per riconciliare e riappacificare la società. I cancelli di Beerta Nabada, per esempio, non favoriscono certo l’inclusione sociale e contribuiscono almeno in parte a una maggiore percezione di insicurezza nel resto della città che, trovandosi al di fuori di quest’oasi, è necessariamente considerata più pericolosa. Una politica di sviluppo urbano più attenta e incentrata sull’inclusione di diversi ceti sociali e gruppi identitari, potrebbe – e dovrebbe – sfruttare al meglio la naturale capacità che gli spazi pubblici hanno di abbattere le disuguaglianze soprattutto in contesti, come quello somalo, in cui la popolazione, oltre ad aver bisogno di sicurezza, desidera anche spazi di serena quotidianità e convivenza. Oggi la Somalia non è più quella degli anni Novanta e le spiagge e i giardini di Mogadiscio offrono grandi opportunità per superare un passato difficile e costruire una nuova “perla bianca dell’Oceano Indiano”.
Per saperne di più:
Hagi Scikei, N. (2017) Exploring the Old Stone Town of Mogadishu. Newcastle: Cambridge Scholars Publishing
Sucuiglu, G. et al. (2017) “The Challenges of Conflict-affected Cities: Building peace through architecture and urban design”, International Studies Association Annual Convention, Atlanta, vol. 57. Disponibile su: http://bitsnbricks.com/the-challenge-of-conflict-affected-cities-building-peace-through-architecture-and-urban-design/
Secchi, B. (2013) La città dei ricchi e la città dei poveri. Roma: Laterza.
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