Simone Dossi (a cura di), Il potere dei generali. Civili e militari nell’Asia orientale contemporanea, Roma: Carocci 2017
Una delle condizioni, necessaria ma non sufficiente, per definire liberaldemocratico uno stato è la subordinazione del potere militare al potere civile. Ma che cosa succede quando, pur avverandosi formalmente questa condizione, le forze armate sono l’istituzione più ricca e potente del Paese? E quando il potere militare è chiamato a difendere non lo stato, ma il partito unico al comando? E come definire il condominio costituzionale tra forze armate e civili, legittimato dalla carta fondamentale e da regolari libere elezioni? Queste sono alcune delle domande che trovano risposta ne Il potere dei generali, volume collettaneo curato da Simone Dossi[1] che analizza nel dettaglio la complessa e variegata storia del rapporto tra civili e militari in Asia orientale. Lo fa in modo esauriente, passando in rassegna, capitolo dopo capitolo, (quasi) tutti i principali Paesi dell’area: la Repubblica Popolare Cinese, il Vietnam, il Giappone, la Repubblica di Cina, l’Indonesia, la Thailandia e il Myanmar.
Nel capitolo introduttivo, Simone Dossi definisce le quattro matrici storiche e i modelli teorici che hanno orientato il modo di concepire e strutturare le relazioni tra i leader in divisa e quelli in doppiopetto. La prima matrice è “la distinzione propria della cultura confuciana tra wen (segno scritto, modello/forma/ornamento) e wu (militare, marziale)” (p. 14), che ha imposto nella cultura politica dell’area la netta distinzione tra élite civile ed élite militare. La seconda è l’influenza (indiretta e diretta) del Giappone, che con la Restaurazione Meiji ammoderna le proprie forze armate ispirandosi ai modelli europei. Con la vittoria del 1894-95 sulla Cina, il Giappone diviene un modello da emulare, mentre nel ’900, grazie alla politica espansionistica imperiale, diventa un modello da esportare, soprattutto nel Sud-est asiatico, dove le accademie militari nipponiche reclutano molti giovani che avrebbero poi formato la nuova classe dirigente dei rispettivi Paesi al momento dell’indipendenza (come Suharto in Indonesia o Ne Win in Birmania). Il modello sovietico (leninista) dell’esercito di Partito, attuato dapprima a metà degli anni ’20 nella Canton sinonazionalista, e il modello liberaldemocratico, imposto a Tokyo dagli Alleati dopo la capitolazione del 1945, e diffusosi alla fine del secolo a Taiwan, in Corea del Sud e in Indonesia, completano il quadro delle matrici storiche.
Poiché gli stati dell’Asia orientale hanno dovuto fare i conti con il colonialismo occidentale e giapponese, l’incursione di vicini bellicosi, lo scontro ideologico in stile Guerra fredda, i confini porosi e incerti, la loro esperienza storica “rappresenta uno straordinario laboratorio per l’applicazione dei modelli teorici” della Scienza politica (p. 18). Il dilemma è universale, ma spesso in Asia orientale ha assunto toni drammatici: come conciliare la necessità di avere un esercito (utilizzo qui la parte per il tutto) forte per difendersi dalle minacce con l’esigenza di un controllo politico sullo stesso? Quando i militari ritengono che i civili siano talmente deboli da mettere in pericolo la sicurezza dello stato, o quando l’intervento del governo mette a rischio i loro interessi corporativi, essi ricorrono a un’arma classica: il colpo di stato. Così, la predominanza degli ufficiali militari nell’arena politica (nota come “pretorianesimo”) è un fenomeno che l’Asia orientale ha sperimentato “su vasta scala” (p. 19). Non solo: a confermare la complessità del quadro, l’Asia orientale ha sperimentato tutti e tre i tipi di pretorianesimo identificati da Eric Nordlinger: dai “pretoriani moderatori” (hanno un potere di veto sul governo) ai “pretoriani guardiani” (assumono il controllo temporaneo per difendere il sistema) ai “pretoriani governanti” (dominano la politica, l’economia e la società). In questo modo, l’Asia orientale sfida le categorie occidentali di alterità lineare (“o/o”) proponendo, forse in linea con il pensiero orientale, esempi di coesistenza ciclica (“e/e”). Per questo Dossi esclude per esempio l’applicabilità agli eserciti di Partito del nesso, individuato da Huntington, tra professionismo e neutralità politica, posto che nella Cina popolare e in Vietnam gli ufficiali delle forze armate, sempre più professionalizzate, devono manifestare fedeltà assoluta al partito comunista. Dossi ritiene invece che il modello principale-agente di Peter D. Feaver, elaborato nel 2005, sia più utile a dare conto dell’esperienza asiatica. Dal modello, secondo cui “il militare può decidere se eseguire le disposizioni del civile o sottrarvisi”, deriva “una casistica delle relazioni civili-militari assai più articolata della classica dicotomia fra colpo di Stato e controllo civile” (pp. 23-24).
Con questo schema teorico in mente, il lettore è messo nelle condizioni di addentrarsi nei labirintici percorsi della storia dell’Asia orientale del ‘900, senza paura di perdersi, guidato con maestria dallo stesso curatore, e da accademici di rango quali Francesco Montessoro (che, come Dossi, firma tre capitoli), Noemi Lanna e Carlo Filippini.
In Cina, una lunga tradizione di potere politico (dei signori della guerra) fondato sul potere militare ispira dapprima Sun Yat-sen e il Kuomintang, e poi Mao e il Partito Comunista, a istituire la “direzione assoluta” del Partito sulle forze armate, anche se, con la crescente autonomia dell’Esercito Popolare di Liberazione, “Esercito e Partito non funzionano più da organismi simbiotici bensì da istituzioni autonome alleate in forma di coalizione” (p. 49). Peraltro, il recente accentramento del potere nelle mani di Xi Jinping comporta la “riaffermazione del controllo del Partito sull’esercito” (p. 51). Fu proprio in Cina, all’Accademia Huangpu di Canton, che si formò il vietnamita Nguyen Ai Quoc (il futuro Ho Chi Minh): nel 1941 viene fondata La lega per l’indipendenza del Vietnam (Viet Minh), e nel 1944 le Forze armate dei comunisti vietnamiti. Il Vietnam e la Cina condividono un altro aspetto: gli interessi economici dell’esercito, che alla fine degli anni ’90 giunge in entrambi Paesi a controllare vasti settori dell’economia, salvo poi essere costretto dal Partito, che vede sorgere un attore sempre più ricco e potenzialmente in grado (un giorno) di erigersi ad alternativa politica, a dismettere (almeno formalmente) le principali attività economiche. In nessuno dei due Paesi, quindi, si è mai affermata la tendenza al pretorianesimo.
Diverso è il caso del Giappone e di Taiwan, entrambi casi di sostituzione del pretorianesimo con la democrazia. Nel primo, dopo il dominio dei militari e l’ubriacatura espansionistica imperiale tra il ’37 e il ’45, “l’affermazione delle élite civili su quelle militari è avvenuta con una radicalità che non ha eguali nel contesto regionale” e ha trasformato il Giappone in un “modello di pacifismo” (p. 87), pur con tutti i distinguo della riorganizzazione strategica delle forze di autodifesa fortemente voluta dal Primo Ministro Abe. Nel secondo, sono le nuove minacce in un contesto radicalmente mutato a fare dapprima abbandonare a Chiang Kai Shek, una volta giunto a Taiwan, le idee di Sun Yat-Sen e ad assumere le vesti del “Generalissimo”, e poi a convincere gradualmente le forze armate a concentrarsi verso la difesa della piccola isola e ad abbandonare l’arena politica. Anche in Indonesia l’esercito abbandona la “doppia funzione” e passa “dall’egemonia al ritorno in caserma” (p. 113), anche se rimane una delle strutture più potenti dello stato, con un grande potere di influenza e di orientamento.
La Thailandia, costituita attorno alla “triade” di monarchia, religione, popolo, rappresenta invece un caso di transizione fallita: dal 1932 (quando la monarchia diventa costituzionale) al 2016 ci sono stati diciannove colpi di stato, in un perenne ciclo “nel quale il re legittima i governi (eletti o imposti), i militari hanno il controllo quasi totale del Paese e i politici civili cercano di allargare la propria sfera di autonomia” (p. 139), tutti a caccia delle risorse economiche, concentrate principalmente a Bangkok (e infatti il Paese è sempre più disuguale, e diviso tra centro e periferia). Diverso ancora è il caso del Myanmar, dove i militari rappresentano un caso di resilienza autoritaria che accetta, per il mantenimento del potere, di cederne una parte ai civili, in una forma di condivisione dei compiti governativi nota con il nome di “democrazia disciplinata”.
Per la sua mole accurata di dati, e per il suo sguardo che abbraccia il secolo XX affacciandosi prospetticamente al XXI, Il potere dei generali diventerà un libro di riferimento per il pubblico italiano interessato a questi temi. Se proprio dobbiamo muovere un appunto di sostanza, in un libro così denso e completo, è un peccato notare l’assenza di un capitolo dedicato alle Filippine, altro grande Paese della regione che presenta un complesso rapporto tra civili e militari. Ci auguriamo che possa essere inserito in una seconda edizione, accanto a un piccolo box – per ogni capitolo – che raccolga la cronologia essenziale degli avvenimenti storici principali, aiutando così il lettore (soprattutto se studente) alla piena comprensione e memorizzazione del testo.
[1] Research Fellow a T.wai, e membro del comitato di redazione di RISE
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