La rappresentazione di un conflitto finisce molto spesso per diventare un fattore di influenza del conflitto stesso; per questa ragione, i media e il controllo della produzione mediatica costituiscono degli strumenti tenuti accuratamente in considerazione dagli analisti. Nel contesto mediatico internazionale costruitosi attorno al conflitto siriano, è possibile scorgere l’evoluzione di una specifica pratica di comunicazione che ha avuto un ruolo determinante nella logistica della rivoluzione sin dal 2011. Si tratta dell’attivismo digitale, circoscritto inizialmente alla dimensione locale e in seguito trasformato in un nuovo processo di informazione che permette di fare luce sul punto di vista dei cittadini e delle comunità in Siria durante la guerra.
In una prospettiva di human security, l’era digitale della comunicazione globalizzata ha prodotto mutamenti paradigmatici nei rapporti tra i media e il potere: la popolazione locale non rappresenta più unicamente l’oggetto dell’informazione prodotta dall’esterno, ma, al contrario, può ora essere riconosciuta come soggetto, attore, agente di informazione diffondibile a livello internazionale. Lo stesso può dirsi della digital community a cui l’informazione si rivolge: non più mera destinataria, ma potenziale vettore di trasmissione. Nel caso siriano, la produzione mediatica online si è rivelata fin dall’inizio della rivoluzione una specola per osservare la partecipazione dei cittadini siriani nel conflitto, così come nella narrazione dello stesso.
Tuttavia, la maggior parte dell’informazione diffusa dai media mainstream in Europa ha seguito almeno due principali linee guida: la prima dà priorità alle operazioni militari e alle analisi geopolitiche o economiche, in cui le condizioni e le istanze socio-politiche dei cittadini sono risolutamente escluse dai termini quantitativi della rappresentazione; la seconda ha legittimato logiche mediatiche di spettacolarizzazione e vittimizzazione profondamente nocive per la reale agency politica dei siriani. In quest’ultimo caso, i cittadini, sebbene al centro dell’immagine prodotta, costituiscono l’oggetto privo di voce delle violenze perpetrate e non il soggetto dell’informazione, assecondando un apparato discorsivo che predilige un punto di osservazione esterno e conduce inevitabilmente verso la disumanizzazione.
L’attivismo digitale per la causa siriana diretto all’opinione pubblica internazionale può essere osservato come uno strumento in grado di contrapporsi a entrambe le dinamiche appena descritte, tentando di portare al centro della comunicazione la società civile siriana, la complessità della sua condizione e delle simultanee posizioni che ha assunto nel corso del conflitto. Uno degli obiettivi principali di questa azione è infatti quello di dare priorità alla pace intesa come un processo politico che abbia al suo nucleo gli interessi dei cittadini.
Oltre a essere praticato dai siriani stessi, l’attivismo digitale per sua stessa natura veicola un’informazione che si concentra sulla dimensione più “umana” – non umanitarista – del conflitto, ovvero sulle necessità socio-economiche dei cittadini, le loro rivendicazioni politiche, le esperienze di resistenza alla guerra e di costruzione della pace vissute e testimoniate dai siriani negli ultimi anni, nonché sull’evoluzione di tali esigenze ed esperienze.
Il processo dinamico messo in atto consente di far cadere i muri del panorama mediatico, offrendo uno stimolo di studio non indifferente per il superamento delle frontiere della conflict analysis in merito ai processi di comunicazione e di partecipazione. Promuovendo una comprensione non statica ma rispettosa della fluidità che caratterizza la sfera sociale del conflitto, alcuni attivisti digitali sembrano presentarsi in qualità di mediatori – non esterni, bensì interni – tra la comunità siriana e la comunità globale, in quanto vicini alle strutture sociali, politiche e culturali dentro cui il conflitto siriano si inserisce, rivelandosi in grado di tradurle per un pubblico internazionale.
In particolare, sul web è possibile rintracciare la presenza di un articolato network di realtà digitali di informazione principalmente autoctone, ma spesso disseminate fuori dal territorio nazionale in seguito all’escalation del conflitto o per altre ragioni di migrazione. Tali realtà si dedicano costantemente alla causa siriana attraverso modalità differenti: riportando le testimonianze dirette delle persone coinvolte e colpite dal conflitto; documentando dettagliatamente le violazioni dei diritti umani e civili sul campo (Violations Documentation Centre); pubblicando appelli per un processo di pace inclusivo e partecipato o diffondendo comunicati per posizionarsi in merito a determinati accadimenti (si vedano gli statements del Syrian Centre for Media and Freedom of Expression); o ancora, denunciando le scelte della comunità internazionale o di altri attori – anche informali e locali – rilevanti nel conflitto; facendo luce sui numerosi processi di democratizzazione dal basso, sui casi di auto-organizzazione locale, di opposizione pacifica alla guerra, sugli episodi di lotta agli estremismi e altre iniziative di costruzione di alternative alle istituzioni preesistenti; infine, non mancando di avanzare proposte dirette a governi e istituzioni internazionali (ad esempio nei reports di The Syria Campaign).
Grazie all’operazione di produzione, traduzione e diffusione di questi contenuti (in Italia è di rilievo il lavoro del blog Le Voci della Libertà), è possibile elaborare una riflessione sul processo di advocacy avviato dagli attori in questione, inteso come reazione civile finalizzata a influenzare l’evoluzione del conflitto – o meglio, il processo di peacebuilding – attraverso azioni di informazione e comunicazione, sensibilizzazione, mobilitazione e lobbying.
Un riconoscimento dovuto ad alcune organizzazioni di attivisti digitali è quello di veicolare un’informazione qualitativa che tenga in vita la connessione tra gli accadimenti del conflitto e la storia del popolo che lo vive. Non di rado, l’informazione più immediatamente accessibile sul conflitto tende a focalizzarsi sull’attualità degli eventi, dimenticando o trascurando la rivoluzione e le cause profonde che hanno portato il popolo siriano a sollevarsi nel 2011 sulla spinta di una richiesta di libertà civile e politica, giustizia sociale, emancipazione economica e autodeterminazione, in opposizione a un regime autoritario rimasto al potere per i quarant’anni precedenti, che ha represso ogni forma di pluralismo e soffocato ogni germe di contestazione. Queste istanze, evolute e profondamente trasformate nel corso del conflitto, rappresentano il primo oggetto dell’informazione elaborata da una parte degli attivisti siriani che si muovono sul web per estendere il raggio dell’azione di advocacy di cui si fanno promotori (si osservi ad esempio l’operato dei giornalisti Fouad Roueiha e Rami Jarrah sui social network). Tale informazione agisce in corrispondenza di un’attenzione nei confronti della dimensione temporale di lungo periodo, “riattivando” una memoria storica essenziale per il processo di trasformazione del conflitto. Secondo questo approccio di analisi, infatti, le emergenze concrete che si verificano nel presente sono da considerare necessariamente come un’espressione del più ampio sistema di trame storiche e relazionali da cui il conflitto ha origine. I tempi dei processi socio-politici vissuti dalle società trascendono i tempi delle offensive militari e delle azioni governative, ed è pertanto necessario ricercare delle lenti allargate sul passato e sul futuro per facilitare una reale comprensione delle esigenze e delle capacità locali, così come per permettere la conseguente elaborazione di una visione legittima per il futuro. Partire dallo sguardo e dalla voce dei cittadini siriani per condurre tali analisi può considerarsi un esercizio quantomeno appropriato; in questo senso, lo strumento di comunicazione digitale sembra prestarsi allo scopo.
È certo, tuttavia, che nel mare magnum dell’informazione presente sulle piattaforme digitali e sui social media tale strumento viene largamente utilizzato anche da attori che non hanno alcun interesse nella pace sostenibile in Siria e che, al contrario, perseguono finalità di guerra e di repressione, diffondono ideologie estremiste o promuovono discorsi d’odio. Non sarebbe dunque prudente “romanticizzare” il canale digitale di per sé. La forma democratica della comunicazione digitale mostra infatti anche i suoi effetti perniciosi. A tal proposito, i casi di strumentalizzazione politica e manipolazione delle tecnologie di comunicazione sono ben noti anche al di fuori dei contesti di guerra. L’impiego ricreativo dei social network, inoltre, potrebbe apparentemente ostacolare la possibilità di visualizzarli come strumenti adatti a ricercare un punto di vista approfondito e critico. Infine, l’articolazione orizzontale e la frammentazione di questi nodi di informazione rende gli effetti di tale forma di comunicazione poco misurabili, impedendo un’operatività automatica in termini di policies. Sono infatti molti i fronti toccati dalle organizzazioni e dagli attori in questione (si pensi ai progetti compiuti da Rethink Rebuild Society): gli obiettivi specifici del loro lavoro possono divergere, così come i contesti in cui sono insediati e gli attori con i quali tentano di dialogare e collaborare. Ciononostante, è possibile individuare nel loro procedere una struttura comune che suggerisce uno schema teoricamente ibrido, promuovendo l’emancipazione locale nel processo di pace senza respingere il sostegno internazionale, che è stato anzi al centro della richiesta di solidarietà espressa da molti cittadini siriani.
Per quanto risulti quindi difficoltoso riconoscere un’efficacia concreta e un’influenza istantanea sul conflitto al lavoro di quegli attivisti che tentano di diffondere le ragioni e le istanze sociali in rete, è possibile individuarvi la rilevanza di un processo partecipativo di informazione al servizio della storia che potrebbe avere come effetto un’influenza di più ampio respiro all’interno di un progetto educativo di lungo termine.
Il modello di comunicazione qui ridotto per comodità al termine di “attivismo digitale” sembra rivelarsi uno strumento in parte capace di catturare la complessità propria del conflitto a partire dal basso – anche in ragione della sua maggiore libertà dai rapporti di potere instaurati da e tra i media – restituendo un’informazione paradossalmente più accessibile ai cittadini, investiti da un processo che esprime un forte potenziale di politicizzazione sia per i produttori che per i fruitori dell’informazione.
Per saperne di più:
Ivie R. (2005) “Web-Watching for Peace-Building in the New Communication Order”, Javnost – The Public, 12:3, pp. 61-77. Disponibile su: https://www.dlib.si/stream/URN:NBN:SI:DOC-C014EOXK/2e9f7c39-6e58-4258-a377-0d66e55c1d4c/PDF
Trombetta, L. (2017) “Syria – Media Landscape”, European Journalism Centre (EJC). Disponibile su: https://medialandscapes.org/country/pdf/syria
Tellidis I. e Kappler, S. (2016) “Information and Communication technologies in peacebuilding: Implications, opportunities and challenges”, Cooperation and Conflict, Sage Publications, Vol. 5, No. 1, pp. 75-93. Disponbile su: http://journals.sagepub.com/doi/pdf/10.1177/0010836715603752
Declich, L. e Pinto, C. (2017) (a cura di) Prima che parli il fucile. Omar Aziz e la rivoluzione siriana. Messina, Mesogea. Anteprima disponibile su: http://www.mesogea.it/images/anteprime/primacheparli(estratto).pdf
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