Prabda Yoon è uno dei nomi più noti della scena letteraria thailandese contemporanea, caratterizzata da una nuova generazione di autori cresciuta nella Bangkok degli anni ’80 e degli anni ’90, un periodo segnato da una rapida urbanizzazione e modernizzazione del Paese. Ora la torinese ADD pubblica in italiano una sua raccolta di dodici brevi racconti, che gli valse il prestigioso S.E.A. Write Award nel 2002.
Un tema ricorrente nei racconti di Feste in lacrime è una velata nostalgia per una moralità – pre-capitalistica? – perduta, accompagnata però da una leggerezza e comprensione per la modernità che può comprendere solo chi si è appena lasciato alle spalle il duro lavoro nei campi. Di nostalgia e ironia è impregnato Qualcosa nell’aria, forse uno dei racconti più riusciti (almeno per il gusto occidentale), in cui – sullo sfondo di una Bangkok sotto un acquazzone tropicale che tutto infradicia – la passione amorosa di una coppia è interrotta bruscamente da un tonfo: due gigantesche lettere (la N e la O) di un’insegna pubblicitaria esterna si sono staccate e sono precipitate, uccidendo una persona che si trovava sul terrazzo. La metafora è del tutto evidente, ma è la normalità che trasuda dal testo che fa sorridere il lettore, fino alla fine.
A volte sono i bambini a dare voce allo scrittore, contento di trasformarsi in una sorta di “grillo parlante” – perché ai piccoli è permesso dire o chiedere quello che agli adulti non è consentito nemmeno pensare, in una logica di mercato che tutto sovrasta. Così, in Diario di una scolara un pensiero all’apparenza banale di una bambina che si rivolge alla governante diventa punto fermo, dura realtà da cui non si può fuggire: “A volte i miei genitori sgridano Pi Nid. A volte quando la sgridano piange, e viene da me a lamentarsi che i miei genitori sono cattivi. Io, personalmente, non capisco perché Pi Nid vive in casa mia se pensa che i miei genitori sono cattivi. Ho chiesto a Pi Nid perché non scappa se non le piacciono la mia mamma e il mio papà. Ha risposto che deve lavorare e guadagnare per dar da mangiare alla sua mamma, che sta in provincia” (p. 66). In Penne tra parentesi un nipote racconta, poeticamente, il rapporto con i nonni, e così facendo traccia un ponte tra due tempi storici così vicini, ma così lontani – un ponte che il lettore attraversa assorbendo elegia. Non c’è invece elegia, ma pianto a dirotto – come se fosse il pianto del cielo di Bangkok – in Feste in lacrime, ritratto (non spietato ma compassionevole) di un gruppo di ragazzi inquieti, persi nel disagio esistenziale che la convulsa vita di una metropoli che tutto tritura rende ancora più insopportabile.
Non mancano i toni tragici in Scomparsa di una vampira a Pattaya, dove le vite delle prostitute possono terminare in un lampo, inghiottite dal buio degli abbracci a pagamento degli avventori di passaggio (“Vorresti essere l’eroe che arriva e libera queste ragazze dal baratro dell’inferno. È come liberare essere viventi dallo zoo”, Miss Spazio, p. 79). In Superficiale/Profondo, Spesso/Sottile (tutto e il contrario di tutto?) viene messo alla berlina il circo mediatico delle dirette televisive, in un’atmosfera surreale che ricorda The Truman Show, il film di Peter Weir con un superlativo Jim Carrey. Un incontro casuale in un parco è l’occasione per affrontare impegnativi discorsi sul male (Ei Ploang): “E’ evidente che la componente chiave dell’equilibrio mondiale è il male. Se fossero tutti buoni non ci sarebbero i politici, e se i politici sparissero da questo mondo la società umana rimarrebbe senza organizzazione, controllo, munizioni (…) Il bene non riuscirebbe mai a essere così creativo. Il male è arte e intrattenimento; il bene è scialbo e noioso” (p. 52).
Come la Thailandia si lascia in parte alle spalle le certezze della tradizione rurale per affrontare uno sviluppo industriale con molte incognite, i protagonisti dei racconti sono spaesati, confusi, alla ricerca persino di un nuovo modo di leggere la realtà. I personaggi grondano umanità, sensibilità, simpatia, perché affrontano le situazioni più assurde conservando la tranquilla ordinarietà delle persone comuni: sono onirici e allo stesso tempo reali, individui stravaganti nella forma e comuni nella sostanza. Le trame sono spiazzanti, e soprattutto in molti casi mancano di un finale, o meglio lasciano un finale aperto alla fantasia del lettore: forse è un po’ come la vita, di cui il gran finale è noto, il resto essendo solamente un susseguirsi di piccoli eventi che intessono la quotidianità. C’è grande ironia, e autoironia, nella penna di Prabda Yoon: “Se provaste a chiedere a sir Yoon che senso hanno i suoi racconti, credetemi, farebbe un ghigno subdolo, eh eh, e poi risponderebbe: ‘Perché non lo chiedete direttamente ai racconti?’ Oppure: ‘Il senso? Secondo voi che senso ha la vostra vita? È il medesimo del mio racconto’. Oppure: ‘Se lo sapessi, che bisogno avrei di scrivere?’ Oppure: ‘Non sapere è il sapere più puro’. A sentirlo mi vien voglia di strozzarlo finché non gli escono gli occhi dalle orbite. Quelli come lui meritano di morire, come minimo” (Marut davanti al mare) (p. 162).
Meglio allora fare spazio alla coscienza, lasciare spazi, che se non contengono nulla non vuol dire che siano vuoti, ma sono piuttosto occasioni, riflessioni, forse anche illusioni: “l’”attesa” è quella del prossimo pensiero. Di uno stato d’animo. Attendere rimane un semplice atto di speranza: ciò che attendi potrebbe non arrivare mai. È un termine ampio e non definitivo” (p. 78). E non definitiva – abbiamo fiducia – è questa raccolta di racconti; ne aspettiamo un seguito, perché vorremmo smentire l’autore: quelli come lui meritano di continuare a vivere e a raccontarci l’umanità, in questo tempo mutevole.
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