Governi, organizzazioni internazionali, ONG e accademici ricorrono a metodi diversi per misurare guerra e pace. Molti di questi si basano su fonti ufficiali, quali ad esempio le statistiche prodotte dai governi. Altri, invece, si fondano su indicatori indiretti, quali la salute delle partorienti o il numero di cittadini in carcere. Parecchie di queste statistiche sono costruite in maniera burocratica, con un approccio top-down, e corrispondono a ciò che James C. Scott ha definito il “registro pubblico”. Ma che cosa ci dicono questi dati del “registro nascosto”, ovvero di ciò che le persone realmente pensano? Nelle società fragili, caratterizzate da tensione politica e da violenza, non tutti si sentono in condizione di manifestare la propria opinione su questioni quali pace e insicurezza.
Prendendo ispirazione dalla letteratura sull’ecologia e sulla geografia critica, abbiamo dato il via a un approccio diverso per rilevare ciò che le persone a livello locale pensano in merito ad argomenti così delicati. La chiave del nostro approccio – che è anche ciò che lo distingue dagli altri – è stato chiedere alla gente di identificare i propri indicatori di pace, sicurezza e cambiamento. Quindi, invece di immaginare possibili indicatori chiusi in un’aula universitaria, o di impiegare gli indicatori prêt-à-porter usati da Banca Mondiale (piuttosto che da altri), abbiamo pensato di chiedere alle persone cosa fosse importante per loro. I risultati ottenuti differiscono parecchio dalle storie ortodosse su guerra, pace e insicurezza.
Il progetto “Everyday Peace Indicators”, finanziato dalla Carnegie Corporation di New York, opera in tre aree che rientrano società post-conflittuali: Sud Africa, Uganda e Zimbabwe. Ha inoltre recentemente avviato le sue attività anche in Colombia. Questo progetto, che collabora con i team di ricerca locali e utilizza la lingua del posto, si basa su gruppi di discussione (focus group) al fine di meglio comprendere ciò che pace e insicurezza significhino nella vita di tutti i giorni di chi vive sul posto. Trasforma poi le definizioni così prodotte in una lista di indicatori, in seguito convertiti in un’indagine somministrata a tutta la comunità e ripetuta nel tempo per rilevare gli eventuali cambiamenti.
Dal momento che possono esprimersi nella loro lingua madre, le persone sono messe nella condizione migliore per descrivere quali sono i segnali che, nella loro esperienza quotidiana, collegano a questioni cruciali come pace e insicurezza. Ad esempio, l’abbaiare dei cani la notte è stato menzionato come un indicatore di insicurezza: quando avviene ci sono malintenzionati nei paraggi. Un altro esempio riguarda l’impossibilità a uscire di casa di notte per orinare. Laddove si usano di norma latrine esterne la gente si sente obbligata a fare i propri bisogni entro le mura domestiche soltanto quando la situazione al di fuori è percepita come insicura. Questi indicatori, fortemente localizzati e spesso anche fortemente personali, riflettono le preoccupazioni giornaliere della gente. Nessuno ha tirato in ballo termini quali “resilienza”, “sicurezza ontologica”, “portatori di interessi locali”, o “spazio umanitario”: termini comuni nella letteratura accademica e nei documenti ufficiali, ma che nessuno usa nella vita di tutti i giorni.
Scoprire ciò che le persone pensano realmente non è semplice, ma è fattibile. Il progetto “Everyday Peace Indicators” ha utilizzato una gamma di metodologie attente alle sensibilità presenti nei contesti di conflitto al fine di verificare l’affidabilità delle informazioni raccolte e di guadagnarsi la fiducia della popolazione interessata. Tuttavia, scoprire ciò che la gente pensa davvero non è che una parte del problema: forse un problema più grande è che le organizzazioni internazionali, le ONG e molti altri non hanno la capacità di ascoltare quello che la gente dice, se lo dice in modo non ortodosso.
Spesso gli attori esterni alla comunità – siano essi il governo nazionale, un’agenzia delle Nazioni Unite oppure una ONG internazionale – possono agire solamente se ricevono informazioni in un formato prestabilito. Questo significa che i punti di vista autoctoni di vedere, ascoltare e sentire pace e insicurezza devono essere tradotti e ritradotti per essere fruibili agli “esterni”. Il rischio è che le storie di pace, conflitto e insicurezza reali vadano perse nel processo di traduzione. Professionisti e accademici devono dunque immaginare percorsi di riforma delle organizzazioni umanitarie e di peacebuilding che le rendano in grado di ascoltare le informazioni che giungono dalla realtà locale senza bisogno di traduzione. Questo problema è nostro, non loro.
Everyday Peace Indicators: www.everydaypeaceindicators.org
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