Un secolo per rompere il silenzio: il genocidio armeno fra storia e negazionismo

A oltre un secolo dalla sua messa in atto, il genocidio armeno rappresenta ancora un caso emblematico e per molti versi estremo di politicizzazione di un fatto storico. Nonostante l’imponente massa documentaria emersa dal 1915 in poi, e nonostante i resoconti dei sopravvissuti e dei molti testimoni – spesso stranieri – questa tragedia risulta al centro di crisi diplomatiche (come quella prodottasi di recente, seppure su piccola scala, fra Roma e Ankara in seguito alla risoluzione approvata dalla Camera dei Deputati lo scorso 10 aprile, in conseguenza della quale è stato richiamato l’ambasciatore italiano, a cui le autorità turche hanno espresso la loro “irritazione” per il riconoscimento del genocidio) ma anche di minacce e dure contestazioni, ambiguità e silenzi – in Turchia e non solo. E anche dove un riconoscimento è arrivato a livello ufficiale, esso è spesso avvenuto troppo tardi e solo dopo un lungo processo, ricco di silenzi e omissioni. Trattare del genocidio armeno è dunque cosa impossibile senza considerarne l’assai travagliata e dolorosa Wirkungsgeschichte (letteralmente “storia degli effetti”): chiunque abbia assistito alle commemorazioni del genocidio armeno nella capitale Yerevan, il 24 aprile di ogni anno, non può non avere constatato il paradosso di un genocidio passato da oltre un secolo ma ancora presente e pulsante, come una ferita aperta.

Commemorazioni del Metz Yeghern a Yerevan. Fonte: Simone Zoppellaro

 

Il Tsitsernakaberd, il memoriale del genocidio armeno. Fonte: Simone Zoppellaro

Partiamo da un punto importante e incontestabile. La definizione di ‘genocidio’ per questi fatti, per quanto spesso lo si ignori o si finga di farlo, è contenuta (embedded, direbbero gli inglesi) fin dal principio nell’idea stessa e nella storia di questo termine: Raphael Lemkin coniò il neologismo proprio in base alle similitudini da lui riscontrate fra la Shoah e il Metz Yeghern, il “Grande Male”, come lo chiamano gli armeni. Dall’opera di Lemkin nacque poi la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, approvata dalle Nazioni Unite nel 1948 in seguito alla risoluzione dell’Assemblea Generale del dicembre 1946. Se si può, ed è sacrosanto, discutere ogni singolo aspetto di questi eventi, come di ogni fatto storico, è altrettanto vero che questo legame originario e fondativo fra il Metz Yeghern e il concetto di genocidio deve restare un punto fermo per chi voglia affrontare la questione con un minimo di onestà intellettuale.

Anche per il Metz Yeghern, non diversamente da quanto avvenuto nel caso della Shoah, le rielaborazioni letterarie e cinematografiche sono state determinanti per diffondere una coscienza critica su questo genocidio. Un paradosso solo apparente, se si pensa a quanto scrisse il filosofo Gunther Anders in quel straordinario lavoro che è Dopo Holocaust 1979, edito in Italia da Bollati e Boringhieri. Così, se un film per molti versi riduttivo e di qualità certo non eccelsa (la serie televisiva Holocaust, appunto) fu fondamentale affinché la Germania federale, dopo 36 anni di quasi completa rimozione, potesse assimilare un evento di una simile entità e importanza (Anders, nel suo lavoro, pone l’accento sull’importanza del processo di “personalizzazione”), così in Italia, a ben altri livelli estetici e morali, è servito un capolavoro letterario come quello di Primo Levi per ridestare le coscienze. Nel caso del genocidio armeno, sempre per limitarci al caso italiano, di straordinaria importanza è stato il romanzo storico di Antonia Arslan, La masseria delle allodole, che è riuscito, insieme alla sua rielaborazione cinematografica firmata dai fratelli Taviani, a imporsi nella coscienza del grande pubblico, rendendo per così dire “a portata d’uomo” (e quindi comprensibile) l’orrore incommensurabile di oltre un milione e mezzo di armeni uccisi al tramonto dell’Impero ottomano. Il lavoro di immaginazione di un film con Meryl Streep e di un romanzo di finzione (per quanto poggi, quest’ultimo, su basi e coscienze storiche assai solide) è stato così, per molti versi, più efficace dell’immane lavoro di generazioni di storici, nonché del materiale fotografico e video emerso sia dal genocidio armeno che dalla Shoah (si pensi alle foto scattate dallo scrittore Armin T. Wegner, che pur hanno avuto una circolazione enorme in Italia grazie al lavoro del figlio, Michele, e del console onorario armeno Pietro Kuciukian, uno dei fondatori di Gariwo e si pensi ai video prodotti dagli Alleati dopo la liberazione dei campi).

Un paradosso che potrà essere ancor meglio compreso, nel caso armeno, se lo si contestualizza all’interno della Guerra fredda, che ha segnato quasi la metà del secolo trascorso dal Metz Yeghern a oggi. Se da un lato gli americani e i loro alleati non avevano alcun interesse a sollevare una questione riguardante un piccolo popolo che gravitava, almeno come entità statale, all’interno dell’Unione Sovietica, e di inimicarsi l’alleata Turchia, entrata nella NATO nel 1952, così la stessa URSS ha fatto di tutto per evitare che riemergesse la questione armena, che rischiava – almeno secondo la visione miope dell’establishment sovietico – di minare gli equilibri interni. Questo, vuoi a causa di una profonda diffidenza per ogni questione nazionale, vuoi per l’importanza rivestita dalla componente turca, cui erano e sono tuttora riconducibili sia il vicino Azerbaijan, che le altre repubbliche turche sovietiche d’Asia centrale (Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan). Non a caso, se si analizza l’ondata di riconoscimenti del genocidio armeno, si noterà come si tratti, nella totalità dei casi, di risoluzioni adottate dopo la caduta del muro di Berlino. Un mutamento di paradigma storico sembra quindi aver determinato una svolta capace di travolgere decenni di omertà e omissioni.

Ciò detto, passiamo a una breve disamina storica di quello che è stato definito dal Parlamento italiano, e prima ancora dal Vaticano (probabilmente a torto, se si pensa a quanto perpetrato dai Tedeschi contro gli Herero e i Nama nell’odierna Namibia fra 1904 e 1907) il “primo genocidio del XX secolo”. Il contesto di partenza è quello della Prima guerra mondiale e del disfacimento dell’Impero ottomano. Un comune errore, nella percezione del genocidio armeno, è quello di associare in modo acritico Islam e massacro dei cristiani armeni, riconducendo la causa prima dello sterminio a una motivazione religiosa. Al contrario, è doveroso ricordare come il Metz Yeghern avvenga in un momento di grave crisi e mutamento, anche ideologico, del sistema ottomano, dove il nazionalismo turco, di chiara importazione europea – in parte anche nelle sue stesse basi filosofiche – soppianta e pone fine a una lunga, quanto contraddittoria, convivenza pluriconfessionale all’interno dell’Impero. Esecutori e mandanti di questo genocidio furono infatti i Giovani Turchi, movimento nazionalista animato dall’ideale del panturchismo, non certo élite religiose o tradizionali legate all’Islam.

Quella che gli storici chiamano l’Armenia storica – assai più ampia dell’attuale Repubblica di Armenia, sorta sulle ceneri dell’URSS – risultava all’epoca divisa a metà fra l’Impero zarista e quello ottomano, che se la contendevano non solo a colpi di cannone, ma anche con quello che oggi definiremmo soft power. In tale contesto, nonostante l’innegabile fedeltà di moltissimi armeni allo stato ottomano, la Russia cristiana sembrava offrire più appeal, più garanzie, oltre che una comunanza di fede religiosa. Questo rese estremamente diffidenti i Giovani Turchi, imbevuti di un feroce razzismo e di un ansioso desiderio di rivalsa nei confronti dei loro vicini più potenti e delle minoranze dell’Impero che, una dopo l’altra, gli voltavano le spalle: i Giovani Turchi decisero dunque di mettere in atto un progetto di sterminio senza precedenti, per entità e organizzazione, né nella storia ottomana, a suo modo inclusiva e (relativamente) tollerante, né nella tradizione islamica, che vantava un’antica consuetudine con le comunità cristiane del Dar al-Islam, ovvero dei territori sottoposti al dominio politico e giuridico dei regnanti musulmani.

A partire dal 1913, le sorti della Sublime Porta sono rette da un triumvirato che rappresentava la frangia più oltranzista dei Giovani Turchi: il Ministro della Guerra, Enver Bey, quello degli Interni, Talaat Pascià, e per ultimo il Ministro della Marina, Djemal Pascià. La notte del 24 aprile 1915 – data in cui ancora oggi si commemora il Metz Yeghern, in Armenia come nei molti paesi interessati dalla diaspora – l’élite armena di Costantinopoli, assai influente e ben integrata nei gangli dell’Impero, venne arrestata, per poi essere deportata e uccisa. Si procedette poi al disarmo e al massacro dei militari armeni, costretti ai lavori forzati, per dare quindi il via alla deportazione sistematica della popolazione armena verso il deserto siriano di Deyr al-Zour. Si tratta delle cosiddette “marce della morte”. Un milione e mezzo di persone persero la vita, circa i due terzi degli Armeni dell’Impero ottomano. Molti furono gli orfani assimilati e le donne armene date in spose, spesso dopo aver subito inenarrabili violenze, a Turchi e Curdi. In entrambi i casi, si persero quasi del tutto le tracce della loro identità d’origine. Si tratta dei cosiddetti hidden Armenians, gli “Armeni nascosti”, che sono riemersi, dopo un lungo silenzio, grazie a una ricca pubblicistica storica e memorialistica venuta alla luce solo negli ultimi decenni. 

La storiografia ufficiale turca nega da sempre che vi sia stato un piano intenzionale e specifico di sterminio (questo il vero punto del contendere) e considera i massacri, minimizzandoli, una semplice conseguenza di una guerra che ha colpito la popolazione armena – a quanto si afferma – non meno della popolazione turca e delle altre minoranze dell’Impero. Parlare di genocidio in Turchia può costare il carcere e il riconoscimento del genocidio da parte di un paese terzo, come abbiamo visto anche di recente in Italia, suscita immancabilmente le proteste di Ankara. La Repubblica turca, creata da Mustafa Kemal Ataturk conservando il territorio che pure era stato smembrato con il trattato di Sèvres (1920) in diverse zone di influenza – una parte delle quali sarebbe dovuta toccare, fra l’altro, proprio agli Armeni – non arriverà mai a rinnegare l’atto genocidario compiuto dei Giovani Turchi, e anzi per alcuni versi lo proseguirà con nuovi massacri ed espulsioni, negando le responsabilità dei crimini commessi, ma anche accaparrandosi definitivamente i beni degli Armeni senza fornire alcun risarcimento alle vittime e ai loro discendenti.

Tutto il resto è silenzio. Un intero secolo di silenzio che neppure l’ampia risonanza fornita dal centenario del genocidio, commemorato in pompa magna a Yerevan nel 2015, è riuscito a scalfire, se non in minima parte. Troppe le assenze importanti, in quell’occasione, troppe le parole spese a vuoto, senza voler in alcun modo incidere. Too little, too late, come si dice, per far sì che si rimargini una ferita secolare che ha segnato intere generazioni di Armeni, riportando “entro il cerchio della nostra umanità”, come scriveva Gramsci in articolo del 1916 dedicato proprio a questo genocidio, uno delle pagine più buie e nascoste della nostra storia.

 

Per saperne di più:

Gariwo “Genocidio armeni”. Risorse disponibili su: https://it.gariwo.net/persecuzioni/genocidio-armeni/

Guerini e Associati (2019) “Genocidio armeno, arriva il riconoscimento ufficiale”.  Risorse disponibili su: https://guerini.it/cms/storia/genocidio-armeno-arriva-il-riconoscimento-ufficiale/

Osservatorio Balcani e Caucaso (2015) Dossier dedicato al Metz Yeghern. Disponibile su: https://www.balcanicaucaso.org/Dossier/Genocidio-armeno-1915-2015

 

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