La situazione nella penisola coreana sta assumendo per la Cina il profilo di un test politico di grande rilievo.
Il 26 marzo scorso un vascello della marina militare sudcoreana è affondato a seguito di un’esplosione che ha spezzato in due la carena della nave, provocando la morte di 46 marinai, circa metà dell’equipaggio. Il vascello si trovava di pattuglia nei pressi della Northern Limit Line, il confine transitorio fissato dalle Nazioni Unite nel 1953 per dividere lo spazio marittimo a ovest della penisola dopo la sigla dell’armistizio che pose fine alla Guerra di Corea (1950-53). La Corea del Nord non riconosce questa demarcazione, che la priva dell’accesso a ricche riserve di pesca alcune miglia più a sud, e i sospetti sull’affondamento si sono subito concentrati sui comandi militari della capitale nordcoreana, Pyongyang.
Il regime nordcoreano – di stampo leninista, centrato intorno alla figura del “Caro leader” Kim Jong Il e pressoché isolato dal resto del mondo – non è nuovo a simili attacchi a sangue freddo: nel 1983 a Rangoon (Birmania) un fallito attentato contro il presidente sudcoreano Chun Doo-Hwan costò la vita a 21 persone, tra cui 4 ministri, mentre nel 1987 un ordigno collocato su un volo civile della Korean Airlines causò 115 vittime.
La reazione del governo sudcoreano è stata inizialmente improntata alla massima prudenza: il presidente Lee Myung-bak, responsabile del peggioramento dei rapporti con il Nord negli ultimi due anni, dopo la lunga fase di appeasement della “Sunshine policy” perseguita dai suoi predecessori, ha aperto un’inchiesta internazionale sull’avvenimento, attendendo sino al 21 maggio prima di pubblicarne gli esiti. Ciò ha consentito che gli animi si raffreddassero, il che ha evitato che le pressioni dell’opinione pubblica inducessero a rappresaglie suscettibili di provocare un’escalation militare. E’ noto, infatti, che Pyongyang – tecnicamente ancora in guerra con Seoul – mantiene una postura strategica attraverso cui intende segnalare di non temere l’escalation. L’esito degli esami condotti da esperti sudcoreani e stranieri ha tuttavia portato alla luce prove definite “inequivocabili” di un attacco nordcoreano: resti di un siluro in dotazione alla marina militare del Nord sono stati rintracciati, nonostante le proteste di innocenza di Pyongyang.
Le reazioni sono state immediate e hanno interessato tutti i principali attori che operano nel teatro regionale: Seoul ha interrotto i rapporti commerciali con il Nord, ha proibito l’accesso alle proprie acque territoriali ed allo spazio aereo nazionale, e ha stabilito di portare la questione all’attenzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Pyongyang ha ribattuto mettendo in allerta le forze armate e tagliando ogni contatto, inclusa la linea di emergenza, con conseguente aumento del rischio di scontri generati da errori di valutazione.
A conferma di quanto affermato nel capitolo della Strategia di sicurezza nazionale dedicato agli Asian allies, Washington ha sostenuto con forza l’alleato sudcoreano, offrendo la propria disponibilità a esercizi navali congiunti, mentre il Segretario di Stato Clinton – a Pechino per il dialogo strategico – ha premuto sulla Cina per ottenere che i leader cinesi esercitino pressioni su Pyongyang, alleato storico della Repubblica Popolare. Anche il Giappone ha assunto una posizione di fermezza, limitando l’entità delle rimesse che i cittadini nordcoreani presenti sul suolo nipponico possono inviare in patria. Grande incertezza sembra, invece, regnare a Pechino. Alleata del Nord nella Guerra di Corea, in passato la Cina ha attribuito al piccolo vicino meridionale soprattutto il valore geopolitico di stato-cuscinetto, utile a prevenire la presenza militare statunitense a ridosso dei propri confini in caso di unificazione della penisola (gli Stati Uniti mantengono circa 30.000 militari in Corea del Sud). In tempi più recenti, però, a fronte dell’involuzione del regime nordcoreano e dello stato di prostrazione in cui versa la sua impoverita popolazione, la Rpc ha finito per fungere più che altro da fonte obbligata di sostegno economico, trovandosi minacciata dal rischio di un esodo di massa di nordcoreani verso i propri confini nel caso di implosione dell’autorità di Pyongyang. Il precario stato di salute del leader Kim Jong Il e l’assenza di una successione prestabilita complica ulteriormente la situazione, che non è parsa sbloccarsi dopo la visita di Kim a Pechino nei giorni scorsi. L’incontro con i leader cinesi è stato definito “franco”, termine in genere utilizzato per indicare il permanere di un forte disaccordo tra gli interlocutori. Il silenzio ufficiale dei vertici cinesi lascia intendere la presenza di linee diverse tra i principali attori della politica estera cinese verso Pyongyang: sebbene si ritenga che un ristretto numero di influenti figure storiche del Pcc auspichi il permanere della relazione privilegiata con la Corea del Nord, si fanno più forti le voci di quanti auspicano la minaccia dell’interruzione degli aiuti ai coreani finché questi non avranno ricondotto la situazione di tensione entro binari normali. Pechino non ha alcun vantaggio a vedere appannato il proprio profilo di membro affidabile della comunità internazionale, costruito pazientemente ospitando a Pechino diversi round del negoziato a Sei, con cui tra il 2003 e il 2009 si è tentato – con scarso successo – di distogliere Pyongyang dai suoi programmi di sviluppo di armamenti nucleari.
A Pechino è quindi tempo di decisioni. Il dilemma non è soltanto tra agire o meno in continuità con il sostegno che la Cina ha dato nel 2006 e nel 2009 alle risoluzioni Onu 1718 e 1874, che hanno imposto sanzioni a Pyongyang all’indomani dei suoi due test nucleari. La scelta davvero strategica è legata alla necessità di reinterpretare l’interesse nazionale della Rpc alla luce di un rafforzamento del partenariato con i principali attori regionali, con l’obiettivo predisporre linee di intervento condivise che vadano oltre la crisi attuale e guardino al medio periodo – e al rischio del crollo di un regime sempre più instabile.
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