Il 17 luglio il Consiglio Legislativo (Legislative Council – LegCo) della Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong (il nome ufficiale dell’ex colonia britannica dopo il passaggio alla sovranità cinese nel 1997) ha introdotto per la prima volta una legge sul salario minimo, ponendo fine a un dibattito interno che durava da anni. L‟economia di Hong Kong è infatti basata su uno spinto laissez-faire. In realtà già nel 1932 era stato concesso al governatore della colonia il diritto volontario a stabilire un salario minimo ma questo diritto non venne mai esercitato.
In base alla legge, che entrerà in vigore nel 2011, un comitato appositamente nominato dal capo del governo (Chief Executive), Donald Tsang, dovrà fissare il valore del salario tra un minimo di 23 dollari di Hong Kong per ora (pari a 3 dollari Usa) e un massimo di 33 per ora. In una delle città più care al mondo, anche il valore più alto sarebbe comunque inferiore a quanto previsto negli Stati Uniti (7,25 dollari Usa) e nel Regno Unito (9 dollari Usa). Ovviamente, il valore inferiore è sostenuto dalla business community, mentre il mondo sindacale, che si rallegra per avere sconfitto l‟opposizione delle élite hongkonghine, punta all‟adozione del livello salariale più elevato. La chiesa cattolica di Hong Kong, invece, prescinde da valutazioni di carattere puramente economico e ritiene che un adeguato salario minimo, in quanto diritto individuale, dovrebbe consentire di rispondere ai bisogni fondamentali dei lavoratori e delle loro famiglie.
È difficile che i sindacati ottengano “quota 33”: il 30 agosto la commissione ha raggiunto un accordo sul salario minimo da raccomandare e, seppure in assenza di un annuncio ufficiale, sembra che sia stato proposto un valore di 28-29 dollari (una sorta di compromesso tra le opposte richieste). Inoltre, la legge non sarà applicata ai lavoratori domestici, poiché la loro presenza 24 ore su 24 nella casa del datore di lavoro non consentirebbe di calcolare le ore effettivamente lavorate. Il Sydney Morning Herald ha stimato che almeno 280.000 lavoratori, principalmente indonesiani e filippini, saranno esclusi dal beneficio del salario minimo. I sindacati dei lavoratori domestici accusano però la legge di essere discriminatoria.
Tuttavia, secondo Miriam Lau, membro del LegCo per il partito liberale (citata in un recente rapporto, intitolato significativamente “Fine di un esperimento”, del settimanale The Economist), la fissazione di un salario minimo a 24 dollari di Hong Kong comporterebbe la perdita di 30.000 posti di lavoro (pari all’1% della forza lavoro), mentre con un salario minimo di 32 i posti persi sarebbero 170.000, provocando il raddoppio del tasso di disoccupazione. La legge inoltre impone che il pagamento del salario minimo sia garantito anche agli stagisti, e ciò suscita la preoccupazione dei numerosi studi di consulenza legale, commerciale e finanziaria presenti sul territorio. Hong Kong, sempre più integrata con il mercato cinese, negli ultimi anni ha perso competitività nei confronti sia della Repubblica Popolare sia delle economie emergenti del Sud-Est Asiatico: pertanto questa legge, secondo i fautori del libero mercato, non farà altro che peggiorare la situazione.
Nel 2008 Donald Tsang fece inserire Hong Kong nel piano quinquennale cinese, e nel 2009 dichiarò che il governo ha un ruolo nella promozione dello sviluppo economico. Questo crescente attivismo riflette sia il mutato atteggiamento globale nei confronti dell’intervento statale in economia, sia un crescente, seppure graduale, ampliamento degli spazi di democrazia: un’altra legge, approvata a fine giugno, propone elezioni dirette a suffragio universale per il Chief Executive per il 2017 e per il LegCo nel 2020, aumentando da subito da 800 a 1.200 il numero dei componenti del collegio funzionale chiamato a eleggere il Chief Executive.
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