Le lezioni della mini-crisi nel Mar della Cina

Eventi recenti hanno messo sotto forte pressione la public diplomacy della Repubblica Popolare Cinese (Rpc), già impegnata in una complessa transizione dalla retorica del “paese in via di sviluppo”, ormai difficilmente sostenibile, a quella dello “sviluppo pacifico”. A preoccupare gli altri paesi non è tanto il rischio che l’ascesa cinese assuma una connotazione aggressiva, quanto che Pechino, forte del suo crescente peso economico, ampli sempre più il perimetro delle sue ambizioni territoriali e geopolitiche.

Dopo le polemiche estive sulle dispute nel Mar della Cina Meridionale di cui abbiamo trattato nello scorso numero di OrizzonteCina e che hanno trovato un’eco nel recente incontro tra il presidente americano Obama e i leader dei paesi Asean, nelle scorse settimane si è rinfocolata un’altra contesa, questa volta nelle acque del Mar della Cina Orientale che separano la Cina (e Taiwan) dal Giappone. Lo scorso 8 settembre si è verificato uno scontro tra due vascelli della Guardia Costiera nipponica e il peschereccio cinese “Minjinyu 5179” a circa otto miglia nautiche dalla costa della più estrema delle isole Senkaku, un gruppo di otto isolotti sotto l’amministrazione di Tokyo come parte della prefettura di Okinawa (all’estremità meridionale dell’arcipelago giapponese). I 14 membri dell’equipaggio cinese sono stati fermati, ma in breve rilasciati, tutti tranne il comandante del peschereccio che è rimasto in stato d’arresto per 18 giorni, in attesa che la competente procura di Ishigaki si pronunciasse sulla sua possibile incriminazione per resistenza a pubblico ufficiale, oltre che per violazione delle norme di passaggio nelle acque territoriali giapponesi. La Convenzione Onu sul Diritto del Mare del 1982 stipula all’art. 19 che le navi di ogni paese abbiano diritto ad attraversare le acque territoriali di un altro stato (definite in 12 miglia nautiche dalla costa) senza giovarsi delle riserve ittiche ivi contenute e a patto di non pregiudicare la sicurezza dello stato medesimo. La guardia costiera giapponese è intervenuta contro il peschereccio cinese, che fonti anonime di Tokyo hanno peraltro accusato non tanto di pesca abusiva, quanto di spionaggio. Questo tipo di operazioni da parte cinese sarebbero in sensibile aumento dall’inizio dell’anno, a detta delle autorità nipponiche.

I vertici di Pechino si sono rapidamente mobilitati, anche a seguito delle vivaci proteste sulla rete dei sempre più influenti netizen nazionalisti, come constatato in un recente studio di Linda Jacobson per lo Stockholm Peace Research Institute (Sipri). Lo status giuridico delle acque in cui è avvenuto l’incidente è incerto: le isole sono rivendicate dalla Rpc con il nome di Diaoyu, e dalla Repubblica di Cina (Taiwan), dove sono conosciute come Tiaoyutai.

Dal canto suo, il Giappone rifiuta di prendere atto che esiste una disputa sulle isole, che ha incorporato in quanto “terra nullius” nel gennaio 1895: Tokyo ha sottolineato la scarsa plausibilità della rivendicazione cinese, che – a differenza di quanto vale per tutte le altre attualmente pendenti – non è stata formulata all’atto della nascita della Repubblica Popolare, ma solo nel 1970 dopo che, un anno prima, la Commissione Economica Onu per l’Asia e l’Estremo Oriente aveva rinvenuto giacimenti di petrolio nell’area.

Le autorità giapponesi sottolineano come l’annessione delle isole sia avvenuta prima del Trattato di Shimoneseki (maggio 1895), quando Tokyo ottenne Taiwan dall’Impero cinese sconfitto nella guerra dell’anno precedente. Per questa ragione sarebbe nulla la pretesa della Repubblica di Cina (Taiwan) di vedersi restituite le isole a norma del Trattato di San Francisco, che impose al Giappone di restituire alla Cina tutti i possedimenti acquisiti con la violenza da Shimoneseki in poi.

Altrettanto poco plausibile è, secondo il governo giapponese, la serie di argomenti addotti dalla Rpc, che cita il primo rilevamento cartografico delle isole nel XIV secolo e l’appartenenza delle Diaoyu al Regno di Ryukyu, già tributario dell’impero cinese (ma invero anche feudatario del signore giapponese di Satsuma), oltre che punto di appoggio per le navi imperiali cinesi impegnate nel contrasto alla pirateria giapponese dell’epoca.

La querelle, conclusasi con il rilascio del comandante cinese e con una serie di reciproche richieste di scuse e risarcimenti, ha messo in evidenza tre interessanti dinamiche. In primo luogo, le autorità di Pechino hanno mostrato di avere la capacità e la volontà politica di colpire gli interessi giapponesi, così come invocato in un editoriale del popolare quotidiano Global Times. Il governo cinese ha prima convocato l’ambasciatore giapponese varie volte, anche di notte, per esprimere le proprie rimostranze; in seguito ha interrotto gli incontri politici ad alto livello e quelli culturali, giungendo infine a minacciare gli interessi commerciali delle imprese giapponesi in Cina.

Il secondo aspetto di rilievo è il ruolo svolto degli Stati Uniti: Washington non ha fatto mancare un chiaro sostegno all’alleato giapponese e, per quanto l’Amministrazione mantenga una posizione di neutralità sulla disputa territoriale, il Pentagono ha confermato che il Trattato di alleanza bilaterale è valido in caso di attacco ai danni di qualsiasi territorio sotto l’effettiva amministrazione di Tokyo, ivi incluse le Senkaku.

Questa dinamica conduce a una terza osservazione: la serie di mini-crisi in cui la Rpc si è trovata coinvolta negli ultimi mesi mette in luce come i paesi dell’Asia orientale siano lungi dal bandwagoning, cioè dalla tentazione di saltare sul carro della potenza emergente. Non è quindi detto che essi si debbano rassegnare, prima o poi, a una “finlandizzazione” di fatto, inibendosi ogni scelta sgradita alla Rpc nel quadro di una Dottrina Monroe à-la-chinoise. Sembra anzi che siano alla ricerca di un contrappeso all’ingombrante vicino. Di qui anche la soddisfazione con cui hanno accolto il rinnovato impegno statunitense nell’area.

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