Mentre i leader statunitensi ed europei sono impegnati a rimodulare la propria politica verso la Cina – i primi adottando una linea di maggiore fermezza, i secondi cercando di superare la politica di cooperazione incondizionata seguita sin qui – due nuove ricerche gettano luce su come viene percepita l’ascesa della Rpc sulle due sponde dell’Atlantico.
Le inchieste sono il frutto di due progetti pluriennali di monitoraggio degli atteggiamenti del pubblico europeo e statunitense nei confronti delle principali questioni internazionali. Global Views 2010 (GV) del Chicago Council on Global Affairs, dedica ampio spazio alla natura multipolare del mondo in cui gli Usa si trovano a operare, chiarendo fin dalla prima tabella (p. 12) come, in questo quadro, una posizione centrale spetti alla Cina, la cui influenza sulla politica internazionale viene percepita come capace di eguagliare quella statunitense nell’arco di un decennio. Diversa la posizione degli intervistati in Europa: l’edizione 2010 di Transatlantic Trends (TT), realizzato dal German Marshall Fund of the United States e dalla Compagnia di San Paolo, rivela come soltanto il 68% di loro ritenga che Pechino sia in grado di esercitare una forma di leadership globale nel prossimo quinquennio, contro il 91% degli intervistati negli Stati Uniti.
È probabile che la Grande Recessione abbia giocato un ruolo significativo nel plasmare l’opinione del pubblico americano: rispetto al 2008, la Cina ha superato Canada e Regno Unito, arrivando al vertice della classifica dei paesi “più importanti” per gli USA, con l’87% degli intervistati che la definiscono “molto o piuttosto importante” (GV, p. 59). Allo stesso tempo, sebbene i sentimenti della popolazione statunitense nei confronti di paesi come Gran Bretagna, Germania e Giappone appaiano ben più calorosi rispetto a quelli riservati alla Rpc (GV, p. 60), una chiara maggioranza ritiene che vi sia una sufficiente consonanza di interessi (58%) e persino di valori (53%) con la Cina da consentire un proficuo rapporto di cooperazione (TT, p. 20).
Molto diverso il discorso in Europa: in nessuno degli 11 paesi in cui si è svolta l’inchiesta di Transatlantic Trends si è registrata una maggioranza a favore della nozione che esista un’armonia di interessi e valori con la Cina tale da consentire un partenariato davvero costruttivo. Particolarmente marcata la distanza percepita dai cittadini italiani e tedeschi proprio rispetto ai valori: se il 44% degli italiani e il 35% dei tedeschi riscontrano interessi convergenti con quelli della più grande economia dell’Asia, la percentuale precipita rispettivamente al 26% e al 18% quando si passa dal portafoglio ai principi (TT, p. 20). Non si tratta di dati trascurabili per Bruxelles, nel momento in cui l’Unione lavora alacremente per ridare slancio all’azione internazionale comunitaria, a partire dai rapporti con i principali attori globali, Cina in testa. L’ultimo Consiglio Europeo ha indicato come obiettivo prioritario la ridefinizione dei diversi partenariati strategici dell’Ue, che dovranno essere “basati sui reciproci interessi e vantaggi e sul riconoscimento del fatto che tutti gli attori hanno diritti e doveri”.
L’effettiva capacità dell’Unione di mobilitare il peso congiunto dei 27 paesi membri a sostegno di linee di politica estera comuni è tanto più determinante quanto più globale è la portata delle sfide che si palesano all’orizzonte. Gli esempi più evidenti riguardano la tenuta dell’ordine commerciale internazionale e la sostenibilità ambientale dello sviluppo. Nel primo ambito si coglie l’accentuarsi di fiammate mercantilistiche, secondo logiche che fanno delle scelte commerciali e di investimento strumenti impropri di politica estera, come nel recente caso dell’interruzione delle consegne di terre rare (risorse minerarie necessarie per la produzione di molti manufatti hi-tech) da parte della Cina al Giappone, a seguito delle recenti tensioni nel Mar della Cina orientale. Un settore nel quale è richiesto uno sforzo particolare di leadership a livello globale è senza dubbio quello della tutela dell’ecosistema planetario. Il fallimento del Vertice di Copenhagen nel dicembre 2009 è stato determinato anche dalla debolezza della posizione europea, ma una buona parte di responsabilità ricade su Pechino, a cui non a caso il 74% degli intervistati statunitensi e il 55% degli europei imputa scarsa collaborazione nella lotta al cambiamento climatico, TT, p. 22.
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