Si apre a giorni a Seoul il Vertice del G20, il primo al di fuori di Stati Uniti ed Europa, o, più precisamente, all‟esterno del perimetro dell’“anglosfera”, dal momento che Washington e Londra hanno curato tutti i precedenti incontri al livello dei Capi di Stato e di governo nel 2008 e nel 2009. Che sia un dinamico e democratico paese asiatico – la Corea del Sud – a guidare l’appuntamento nel 2010 appare al contempo come un auspicio e un riconoscimento per una regione del mondo che oggi fa da traino alla ripresa economica.
La Cina è un osservato speciale a Seoul, specialmente per la sua politica monetaria. I dubbi riguardano ancora una volta le scelte della leadership di Pechino, che sembra distaccata e poco incline a contribuire in modo attivo alla formazione di un consenso in seno al G20. Sul tema dei cambi valutari Washington ha ottenuto un mezzo successo nella riunione di Gyeongju dei ministri delle finanze (22-23 ottobre), ma rimane il rischio una contesa monetaria ad alto potenziale destabilizzante.
La situazione è paradossale: il G20 è nato, infatti, proprio dalla consapevolezza dei paesi più avanzati che fosse necessario integrare una serie di nazioni di prima importanza nella discussione sui principali dossier che richiedono uno sforzo di governance di respiro globale. La Cina era il primo obiettivo di questa azione, data la riluttanza di Pechino ad essere coinvolta nelle attività del G7/G8. I leader cinesi avevano in effetti declinato numerose aperture in questo senso in ossequio alla tradizionale politica della Cina di presentarsi come campione dei paesi in via di sviluppo, capace di contrastare gli atteggiamenti “egemonici” di Stati Uniti e alleati. Il G20 avrebbe dovuto fornire a Pechino un contesto molto più neutro in cui operare, essendo le responsabilità diluite tra un maggior numero di attori, inclusi molti paesi emergenti.
Le attese per un atteggiamento più propositivo da parte della leadership cinese su molte delle tematiche al centro del confronto internazionale sembrano però destinate ad essere frustrate. La “sana mentalità da grande potenza” di cui si dibatte nei circoli internazionalistici cinesi sembra implicare la richiesta agli altri paesi – gli Usa in particolare – di un maggiore riconoscimento delle esigenze di sicurezza della Rpc, più che un rinnovato impegno di Pechino nella definizione e gestione dell’agenda internazionale. Interpellato su questo punto, Shi Yinhong, direttore del Centro Studi Americani della Renmin University, rimarca il senso di isolamento che si percepisce a Pechino da 12 mesi a questa parte. Sebbene in termini materiali gli Stati Uniti stiano sperimentando un relativo declino – inevitabile dopo decenni di robusta crescita economica in un gran numero di paesi emergenti –, a Pechino vi è acuta consapevolezza di come questa non sia che una delle dimensioni del potere statunitense: la capacità di pilotare il dibattito internazionale e di aggregare consenso rimane insuperata e si fa sentire fortemente anche tra i vicini della Rpc, sia in Asia nordorientale (Giappone e Corea del Sud in primis), sia tra i paesi Asean. La Cina avverte così di essere più o meno esplicitamente l’“obiettivo” di questo G20, visto il modo in cui la discussione si è sviluppata alla sua vigilia, con pressioni (non provenienti non solo da Usa ed Europa) su temi critici come la rivalutazione del renmimbi, il mantenimento dei flussi di esportazione di terre rare e la situazione nella penisola coreana.
Il comportamento cinese appare contraddittorio, soprattutto se paragonato con il periodo 2002-2007, il primo quinquennio della leadership di Hu Jintao. Le posizioni più assertive assunte di recente sono in parte attribuibili a calcoli di politica interna – i leader cinesi non vogliono essere accusati di arrendevolezza dinanzi alle pressioni occidentali in una fase delicata di transizione –, ma tradiscono anche i limiti della politica di “rassicurazione strategica” perseguita dall’amministrazione Obama nei confronti di Pechino. Nella dichiarazione bilaterale del novembre 2009 Washington si era impegnata a rispettare i “core interests” cinesi, ma questa concessione è stata interpretata in modo molto più letterale ed estensivo a Pechino che a Washington. L’approccio americano ha il demerito di focalizzare l’attenzione sul rapporto bilaterale Usa-Cina, lasciando sullo sfondo il problema di una maggior coinvolgimento della Rpc alla gestione e riforma dell‟ordine internazionale. In quest‟ottica, il ripetersi di riunioni del G20 caratterizzate da una partecipazione poco costruttiva da parte cinese fanno venire meno, almeno in parte, una delle prospettive per cui il Vertice è stato creato, finendo per dar ragione a quanti – come autorevoli esponenti del China Institute for Contemporary International Relations – sostengono l‟opportunità di proporsi orizzonti di cooperazione meno ambiziosi, puntando non già a un’architettura di “global governance”, ma a più flessibili formule task-oriented di “global management”.
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