Generalmente, OrizzonteCina non recensisce testi di autori che siano anche membri del Comitato di redazione della rivista. In questo numero facciamo una parziale eccezione segnalando un testo curato da Marina Miranda che contiene due interventi, a firma rispettivamente di Simone Dossi (che del Comitato è anche coordinatore) e di Daniele Brigadoi Cologna. Compiamo questa scelta perché il volume inaugura una collana di studi e ricerche sulla Cina contemporanea in lingua italiana, Cina Report, che a cadenza annuale, “nel mettere a fuoco alcuni tra i diversi temi politici, sociali, economici e culturali dell’anno appena trascorso, ne considerano gli aspetti di lungo periodo in una prospettiva diacronica” e allo stesso tempo ne offrono un esame attuale (p. 9). L’accesso alle fonti primarie in lingua cinese degli autori dei diversi contributi, e lo sguardo storico che permette di identificare le “forze profonde” – come direbbe Pierre Renouvin – in atto al di là dello svolgersi degli affari correnti rendono quest’operazione culturale un prezioso strumento di analisi a tutti coloro che, pur non essendo sinologi di formazione, osservano e analizzano le dinamiche politiche, economiche e sociali del mondo cinese.
Potere e identità sono le grandi questioni affrontate trasversalmente nel testo. Il potere innanzitutto inteso come potere politico del Partito (nei due saggi introduttivi della curatrice), ma anche come potere economico (nella traduzione a cura di Silvia Menegazzi dell’articolo “La Cina ha aperto il vaso di Pandora?” dell’editorialista di Caijing Cheng Shi), come controllo ideologico (nel capitolo di Davide Vacatello sulla censura – condotta con metodi sempre più raffinati – nel mondo del web mobile), e come proiezione strategica (affrontata da Simone Dossi con riguardo alle controversie marittime nel Mar cinese meridionale, sullo sfondo del riposizionamento in Asia orientale di Stati Uniti e Giappone). L’identità riguarda in primo luogo il complesso rapporto con Taiwan, sia dal punto di vista politico-istituzionale (Manuel Delmestro legge l’incontro-evento a Singapore tra Xi Jinping e Ma Ying-jeou alla luce della campagna elettorale presidenziale allora in corso a Taiwan), sia dal punto di vista sociale (interessante, grazie allo studio di Lara Momesso sulla migrazione matrimoniale tra Rpc e Taiwan, intuire come spesso le spose dalla madrepatria siano discriminate dai difensori dei diritti delle donne migranti per timore che esse rappresentino quasi delle “quinte colonne” di un regime avverso). L’identità cinese, così complessa, appare bisognosa di necessaria sistematizzazione, e ciò può avvenire sostanzialmente in positivo (Alessandra Lavagnino ci fornisce esempi di “potente retorica identitaria” – p. 129 – contenuti nel libro Il sorpasso della Cina di Zhang Weiwei, che individua nella Cina uno “Stato modello di civiltà”, mentre Daniele Brigadoi Cologna racconta come l’ascesa economica si traduca in nazionalismo nei cinesi d’oltremare alla ricerca delle proprie radici), ma anche semplicemente differenziandosi dall’Occidente, dai suoi valori (Zhang Weiwei parla di “sentimento di famiglia-paese [che] costituisce un superamento dei valori individuali dell’Occidente”, p. 130) o dalle sue strategie (fallimentari) di potenza imperiale (Sara Pilia mostra questi aspetti attraverso la traduzione di alcuni articoli della stampa cinese sulla crisi siriana). L’identità è anche spaesata, nelle dolenti poesie degli operai migranti che riconfigurano la subalternità sociale e culturale, oltre che economica, come narra Serena Zuccheri.
Dalla lettura del libro, sembra davvero che sulla linea sottile di equilibrio tra potere e identità si giochi il futuro della Cina (e di tutti noi), e illuminanti in questa prospettiva sono i due saggi di Marina Miranda. Sia quello – che fa da sfondo all’intero volume – narrante il “veloce consolidamento” del potere di Xi Jinping dopo il congresso del Partito del 2012, ma soprattutto il capitolo dedicato alla “ri-ideologizzazione del Partito e degli ambienti intellettuali”, a cominciare dalle Università, “immaginate ormai quasi esclusivamente come unità didattiche” (p. 64). Ai docenti viene concessa infatti sempre meno autonomia e si moltiplicano gli argomenti tabù, dai “sette punti” di cui non si deve parlare (qi bu jiang, 七不讲), ai “quattro no assoluti” sui libri di testo (si ge jue bu, 四个绝不) (uno dei quali, che si presta a interpretazioni estensive, riguardante il no “a commenti negativi da parte dei docenti che possano trasmettere agli studenti stati d’animo e pensieri dannosi” – p. 64). Se vengono meno i luoghi in cui si forma lo spirito critico – e, tendenzialmente, responsabile – mentre il paese affronta un momento cruciale del suo sviluppo economico, che ne testa la sostenibilità, le narrazioni dominanti tendono a essere in linea con la difesa delle posizioni di potere, rischiando così di risuonare come retorica difensiva. Ad esempio, Cheng Shi afferma che “la comunità internazionale necessita di maggiore tolleranza ed esperienza nei confronti dell’economia cinese e del suo reale modus operandi. … La solida resistenza dell’economia cinese, unitamente a riforme costanti in ambito finanziario, sarà in grado di far quadrare i conti per un futuro sostenibile dell’economia internazionale…” (p. 191 e 192). In realtà, non tutti gli economisti guardano alla Cina con l’intento malcelato di accelerarne la crisi, ma principalmente affermano che, sul versante della politica monetaria, Pechino deve decidere a quale dei tre principi (tasso di cambio fisso, mobilità dei capitali, indipendenza della politica monetaria) dover rinunciare, secondo la regola del trilemma di Mundell-Fleming, che prevede la rinuncia obbligata a uno di essi. Finché gli accademici nelle università (perché no, cinesi?) non troveranno un’alternativa alla validità di questa regola in un’economia globale integrata, affermare che la tenuta del sistema economico cinese presenti criticità non significa necessariamente diffondere “commenti negativi”, generanti sentimenti dannosi.
Credere diversamente significa cadere nella trappola di un occidentalismo a buon mercato (l’Occidente vuole comunque esportare la democrazia liberale), uguale e contrario a quel facile orientalismo (la Cina è immutabile e inaffidabile) venato di xenofobia che riscontriamo nei risorgenti movimenti populisti in Europa e negli Stati Uniti. L’operazione culturale di Cina Report aiuta quindi a fare emergere, con sguardo articolato, le dinamiche in atto nella Cina di Xi Jinping, la cui profonda comprensione è necessaria per un engagement con la Repubblica popolare cinese che tenga conto delle diversità, ma che non si illuda delle facili soluzioni che la Storia ha offerto ai popoli quando potere e identità – nei momenti economicamente più difficili – si sono saldati nel nazionalismo più distruttivo.
“Il Gruppo dei BRICS, sempre più variegato, non appare in grado di intraprendere azioni concrete ed efficaci per migliorare la governance mondiale, piuttosto segnala... Read More
Copyright © 2024. Torino World Affairs Institute All rights reserved