[facciaAfaccia] Se la Cina non ti piace, passa

Alberto Forchielli, Classe ‘55 – MBA with Honors ad Harvard e Laurea cum Laude in Economia e Commercio all’Università di Bologna – è fondatore e amministratore delegato di Mandarin Capital Partners. Cura varie rubriche per quotidiani nazionali ed è presidente del centro di ricerca Osservatorio Asia, che ha contribuito a fondare. In questa breve intervista ci parla di una Cina pragmatica, che deve essere affrontata dalle piccole e medie imprese italiane con altrettanto pragmatismo.

 

In una recente intervista lei ha dichiarato: “Il Giappone è la gamba storta dello sviluppo asiatico. È un paese finto, che non accetta l’immigrazione. È un paese vecchio”. L’Asia ha necessariamente bisogno della gamba giapponese per camminare? O la Cina da sola è in grado di fungere – anche in termini politici – da pivot dell’ascesa dell’intera regione? E sarebbe nel suo interesse farlo?

Il Giappone ha un ruolo fondamentale nella regione e non è possibile immaginare un’Asia senza Giappone, benché sia la Cina oggi il vero motore della crescita. Il Giappone infatti non può essere considerato né un ricettore di investimenti, né un Paese dalla vivace domanda interna: al contrario, domanda interna e investimenti sono stagnanti. Ha un ruolo molto importante in quanto finanziatore, ma negli ultimi anni le sue risorse finanziarie si sono drasticamente ridotte: di certo non può trascinare la crescita del Sud-Est asiatico. La Cina, invece, tiene in piedi l’economia dell’area, attraverso l’importazione di materie prime e facilitando gli investimenti. Tuttavia, lo ripeto, un’Asia senza Giappone non è immaginabile.

 

Secondo la sua esperienza, gli accordi commerciali regionali sono più “building blocks” o “stumbling blocks” per il Doha round e la progressiva liberalizzazione del commercio?

Direi che teoricamente sono da considerarsi come stumbling blocks, fattori di disturbo, in quanto questa serie di accordi regionali rende quelli globali più complessi da definire.

 

Come armonizzare, in Cina, incentivi al consumo interno, aumento conseguente dei salari e rivalutazione dello yuan? Può farci una previsione sulle future politiche che la Cina potrebbe adottare in merito a queste questioni?

Non azzardo previsioni, ma posso affermare con sicurezza che l’aumento dei consumi interni e la crescita dei salari non devono accompagnarsi necessariamente a un processo di svalutazione dello yuan. Si tratta di politiche distinte. Paradossalmente, è possibile rivalutare lo yuan mantenendo fisso il suo cambio. In Cina si registra un’inflazione superiore di 3-4 punti rispetto a quella statunitense o europea.

 

Come vede l’attività dei fondi sovrani? Crede che possano avere ripercussioni in termini politici nei paesi che li accolgono?

Il maggior fondo sovrano cinese, la China Investment Corporation, investe in moltissimi Paesi. Non ha obiettivi politici, bensì una strategia orientata al massimo profitto. I finanziamenti concessi dalle maggiori banche cinesi sono finalizzati allo sviluppo e al reperimento di materie prime, così come a una ricerca di fonti privilegiate, che chiaramente sottostanno a controlli politici. Tuttavia il primo obiettivo cinese è sempre pragmatico ed economico, la Cina non punta al dominio in sé, ma a grandi investimenti per l’approvvigionamento di materie prime. Il primo scopo della sua politica, invece, è la conservazione di stabilità e sicurezza.

 

Il biglietto da visita del made in Italy è la sua qualità. Questa caratteristica è apprezzata nel mercato cinese? Esiste una vera forza dell’export italiano verso la Cina o si tratta di un commercio di nicchia, che riguarda solo una piccola percentuale della società cinese senza coinvolgere il ceto medio?

Credo dipenda molto dai settori economici considerati. La qualità del made in Italy è apprezzata esclusivamente in alcuni ambiti, dalla moda al design: chiaramente in questo caso si sviluppa un commercio di nicchia, ma è inevitabile, perché questi prodotti sono rivolti esclusivamente ad una piccola percentuale della popolazione. Per quanto riguarda i prodotti di massa, ad eccezione delle materie prime, la Cina non è di certo interessata ad importare, ma produce e consuma da sé.

 

Quali sono le regole d’oro che una piccola/media azienda italiana deve rispettare se intende investire con successo nel mercato cinese?

È una domanda sulla quale ho riflettuto parecchio in passato e per la quale avevo già elaborato degli slogan:

• Solo cinese batte cinese

• Regolarità batte velocità

• Se la Cina non ti piace, passa

• Prima compra, poi vendi

• In Cina vince chi ha gli ordini, non chi ha la maggioranza nel CdA

• Piccolo non è bello

 

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