La sessione annuale del Dialogo strategico ed economico tra Stati Uniti e Cina che si è tenuta a Washington all’inizio del mese di maggio è stata, a detta dei partecipanti, un successo, avendo ottenuto un risultato “win-win”. Sicuramente, è stato un vertice dominato dalla franchezza reciproca (dimostrando che tra le parti si è stabilito un certo livello di fiducia) e dall’ampiezza degli argomenti trattati. Basti pensare che all’incontro hanno partecipato i rappresentanti di ben 16 agenzie governative americane e di 20 agenzie governative cinesi.
È stato lanciato il primo dialogo di sicurezza strategica con il coinvolgimento di militari di alto rango, ed è stato stabilito un meccanismo di consultazione sui problemi della regione dell’Asia-Pacifico.
In ambito economico, la Cina ha promesso:
• una più dura lotta alla pirateria informatica nella pubblica amministrazione;
• l’eliminazione del catalogo dei prodotti cinesi (legato alla politica di indigenous innovation) che devono essere obbligatoriamente acquistati nelle commesse pubbliche, di fatto aprendo il settore alle società straniere;
• la possibile apertura del mercato assicurativo legato all’automobile;
• la possibilità per le banche straniere di vendere nuovi prodotti finanziari (mutual funds). Sul versante strategico, le due parti si sono impegnate a:
• continuare il dialogo su diversi temi strategici dell’agenda globale, a cominciare dal cambiamento climatico; • rafforzare il dialogo bilaterale sulla sicurezza;
• aiutare la Cina a combattere il degrado ambientale;
• incoraggiare nord e sud Sudan nel processo di pace;
• permettere per la prima volta agli Stati Uniti di partecipare all’East Asian Summit.
Washington non ha però ottenuto granché da Pechino per il rispetto dei principi di libertà di espressione e di associazione e la garanzia di un giusto processo. Inoltre, gli impegni cinesi sono da verificare alla prova dei fatti, poiché le promesse si limitano spesso a accennare a “possibilità” o “approfondimenti”. Pechino, a sua volta, non ha ottenuto dagli Usa un chiaro impegno a eliminare le restrizioni alle esportazioni ad alto contenuto tecnologico (con possibile utilizzo duale, civile e militare). Nel complesso, però, gli elementi positivi hanno prevalso su quelli negativi.
Il vice primo ministro Wang Qishan (che guidava la delegazione cinese insieme all’influente ministro Dai Bingguo) ha detto, nel suo discorso introduttivo, che la partnership tra Cina e Usa è basata sul rispetto reciproco e porta benefici ad entrambe le parti, ricordando come insieme Cina e Stati Uniti realizzino 1/3 del Pil mondiale, e 1/5 del commercio globale. Ha sottolineato quindi come la relazione tra i due paesi abbia una valenza non solo bilaterale, ma anche globale. Citando nuovamente Sun Tsu, Hillary Clinton ha sottolineato come Cina e Stati Uniti siano come due persone sulla stessa barca che, per andare avanti, non possono che remare nella stessa direzione: gli interessi comuni sono superiori alle divergenze.
Malgrado il governo di Washington abbia fatto sapere di avere sollevato nuovamente la questione della rivalutazione dello yuan, anche questo tema sembra fonte di tensioni meno forti che in passato. David Loevinger, funzionario del Tesoro americano e tra i coordinatori del Dialogo, ha detto di avere notato “cambiamenti promettenti” nella politica economica e valutaria cinese, incluso l’aumento del 5% del valore dello yuan dal giugno 2010 (secondo alcuni analisti la valuta cinese è sottovalutata almeno del 20-25%).
La questione dei diritti umani, che è stata sollevata più volte durante il vertice, resta invece un motivo di aspro contrasto. Hillary Clinton, in un’intervista pubblicata sul sito internet del magazine The Atlantic, ha affermato che la situazione dei diritti umani in Cina è deplorevole e, citando le rivolte arabe, ha fatto notare che la storia non è dalla parte dei governi che si sono opposti alla democrazia. Benché Pechino abbia reagito duramente a queste critiche (si veda ad esempio la risposta dell’ambasciata cinese a Londra alla copertina dell’Economist), i colloqui si sono conclusi positivamente: segno che fra i due paesi c’è una notevole comunanza di interessi.
D’altra parte, la repressione messa in atto dal regime di Pechino negli ultimi mesi dimostra quanto profonda sia la sua inquietudine per possibili proteste o disordini sociali. Da anni il governo cinese proclama che la crescita economica deve essere più armoniosa, ed è consapevole di dovere ridurre le sperequazioni sociali. Ma, a giudicare dalle migliaia di piccole e grandi manifestazioni contro la corruzione e le angherie di molti quadri locali che si registrano ogni anno, quest’obiettivo è lungi dall’essere stato raggiunto. Parte delle popolazione è evidentemente stanca di una retorica a cui non corrispondono fatti concreti. Inoltre si avvicina il 2012, anno in cui la coppia di leader Hu Jintao–Wen Jiabao lascerà il potere a una nuova generazione di leader, e storicamente in Cina i momenti di successione sono molto delicati. Infine c’è l’effetto del cosiddetto middle income trap: quando i paesi si avvicinano a un reddito di livello medio, le spinte ai cambiamenti politici si fanno più forti. Il regime si sente quindi più vulnerabile. Sono stati addirittura fatti sparire dal mercato i gelsomini, un fiore molto popolare in Cina, perché simbolo delle rivolte arabe.
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