ThinkINChina è un’“open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.
Nell’ultimo appuntamento di ThinkINChina dell’anno accademico 2010-11, Nicola Horsburgh, ricercatrice del Dipartimento di relazioni internazionali del St. Antony’s College di Oxford, ha presentato i suoi studi sulla partecipazione della Repubblica popolare cinese all’ordine nucleare globale, a partire dal 1949.
Mao, ha ricordato la Horsburgh, contestava, almeno sul piano retorico, il primato delle armi nella soluzione dei conflitti: “Sono un fattore importante ma non decisivo: è il popolo, non le cose, ad essere decisivo”. In mano all’Occidente capitalista l’arma nucleare era una “tigre di carta”, ideata per distruggere la rivoluzione dei popoli, mentre l’atomica “socialista” era presentata come utile per contenere l’aggressività del nemico. Sin dalla fondazione della Repubblica popolare, d’altronde, il programma nucleare cinese è stato profondamente influenzato dalla potenza americana. Già negli anni cinquanta Pechino si sentiva minacciata da un attacco nucleare Usa. Di qui la necessità di sviluppare l’arma nucleare e modernizzare il sistema di difesa nazionale.
L’atomica avrebbe inoltre potuto garantire quello “status” internazionale di cui la leadership maoista era ansiosamente alla ricerca: “Costruiremo solo alcune bombe” disse Mao nel ’58, “perché, pur essendo piccoli e semplici oggetti, se non ne possiedi, nessuno ti ascolta”. La rottura con Mosca pose il problema di un rafforzamento dell’autonomia strategica del paese, giocando un ruolo determinante nella fase iniziale del programma nucleare cinese. Il 16 ottobre del 1964 la Cina popolare raggiunse l’obiettivo che si era prefisso con la prima detonazione nucleare della sua storia. Il governo cinese rilasciò contestualmente una dichiarazione nella quale, interpretando lo sviluppo dell’arma nucleare in chiave puramente difensiva e impegnandosi a non utilizzarla mai per primo in situazioni di conflitto, lanciava un appello al resto del mondo per una completa eliminazione degli armamenti nucleari. Una posizione che mantiene ancora oggi.
Secondo la Horsburgh le critiche cinesi al sistema dei trattati ideato dalle superpotenze – come quello per il bando parziale dei test nucleari (Partial Test Ban Treaty) del 1963 o quello che ha istituito il regime di non-proliferazione nucleare (Non-Proliferation Treaty) del 1968 – e l’emergere della Cina come potenza nucleare avrebbero facilitato la creazione dell’ordine nucleare, influenzando il modo in cui le superpotenze concepivano la non-proliferazione. La presenza di una Cina nucleare inoltre avrebbe rafforzato l’interesse americano a un’intesa con Pechino e al suo coinvolgimento nel sistema internazionale.
Se negli anni ’50 e ’60 la preoccupazione per la sicurezza nazionale aveva imposto la modernizzazione militare come una delle priorità dell’agenda politica del paese a scapito persino della modernizzazione economica, con l’avvento della riforma denghista negli anni ’80, lo sviluppo del programma nucleare e la partecipazione del paese all’ordine nucleare furono posti in secondo piano. Solo dall’inizio degli anni ’90 la Cina avrebbe progressivamente ripreso a interagire con l’ordine nucleare, non più in chiave antagonista, ma come membro responsabile di quel sistema normativo che un tempo aveva attaccato con veemenza. L’adesione di Pechino, peraltro, non è scevra da ambiguità, come dimostra la sua opposizione ad azioni coercitive contro l’Iran o la Corea del Nord, noti stati proliferanti.
Come ha osservato R. Bates Gill in un recente rapporto del SIPRI, la Cina sarà riluttante a partecipare nel brevemedio termine al disarmo multilaterale, poiché ritiene che spetti alle due maggiori potenze nucleari – Stati Uniti e Russia – dare l’esempio, creando le condizioni necessarie alla partecipazione delle potenze nucleari minori al processo di disarmo. La maggior parte degli analisti cinesi critica, inoltre, l’insistenza americana sulla “stabilità strategica” perché suppone una simmetria “atomica” tra le parti, come durante la Guerra Fredda con Mosca, mentre il rapporto tra Washington e Pechino è chiaramente asimmetrico.
Gli appelli di Washington alla riduzione multilaterale degli armamenti e alla “stabilità strategica” sono visti a Pechino come un tentativo degli Usa di mantenere la propria posizione egemonica, anche a rischio di mettere a repentaglio la deterrenza nucleare. Gill sostiene che gli Stati Uniti dovrebbero piuttosto fare alla Cina proposte concrete che vadano oltre la retorica, cercando di creare un rapporto di reciproca fiducia. Solo così, secondo Gill, si potrà instaurare un dialogo costruttivo tra i due paesi che consenta di superare l’attuale ambiguità strategica.
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“For the Trump administration, China’s being defined not as a rival, but as an enemy. It would be interesting to understand the effect of... Read More
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