L’Italia resta l’ottava potenza economica mondiale e, come mostrano gli eventi che si sono succeduti nel mese di settembre, è sufficiente che si avanzino dubbi sulla sua solvibilità perché Roma abbia il dubbio onore di catalizzare l’attenzione dei mercati finanziari e dei vertici politici internazionali. È accaduto lo scorso lunedì 12 settembre, con l’indice borsistico statunitense S&P 500 che rimbalzava proprio in seguito al diffondersi di notizie sul possibile acquisto di quote di debito pubblico italiano da parte di investitori cinesi. Nell’arco di ventiquattr’ore è stata la volta della Casa Bianca: nel corso di un incontro con giornalisti spagnoli Barack Obama ha citato esplicitamente l’Italia, definendola senza tante cerimonie “il principale e più immediato problema” per la stabilità del sistema economico europeo e, di conseguenza, mondiale.
Da settimane si rincorrono notizie su contatti tra funzionari del Ministero del Tesoro ed esponenti di diversi fondi sovrani cinesi; il presidente di uno di questi (la China Investment Corporation, Cic), Lou Jiwei, è stato a Roma nelle settimane scorse, per colloqui con il ministro Tremonti e con i vertici della Cassa Depositi e Prestiti. L’Italia mirerebbe a due obiettivi: convincere i cinesi a sottoscrivere più massicciamente titoli di stato italiani e incoraggiare la partecipazione cinese nelle operazioni lanciate dal neonato Fondo Strategico Italiano (Fsi), controllato al 90% dalla Cassa, che ha il compito di promuovere lo sviluppo delle imprese strategiche italiane.
È chiaro che non si è trattato di colloqui di routine tra Italia e Cina. Mancano cifre ufficiali del Tesoro ma secondo le stime più accreditate i cinesi deterrebbero circa il 4% del debito pubblico italiano (almeno sul mercato primario), che ammonta a 1.900 miliardi di euro (quasi il 120% del Pil). Secondo alcune fonti, il Tesoro auspicherebbe che la percentuale di titoli di stato detenuti da Pechino salisse fino al 13%.
A questo riguardo si impongono almeno tre considerazioni. La prima è di carattere comparativo: secondo i ben più trasparenti resoconti ufficiali del Tesoro statunitense, Pechino detiene oggi 1.165,5 miliardi di dollari di debito Usa, l’11,58% del totale (10.067,7 miliardi), cui si aggiungono altri 118,4 miliardi di dollari controllati da Hong Kong (regione amministrativa autonoma della Cina). L’eccezionale posizione debitoria di Washington nei confronti della Repubblica popolare cinese (Rpc) ha generato una grande mole di analisi e commenti circa l’impatto strategico di questa (inter)dipendenza. Certo, la situazione statunitense produce effetti sistemici sull’ordine internazionale che non trovano corrispondenza nel caso italiano, ma resta comunque legittimo domandarsi se sia normale che il governo italiano stia valutando – o quantomeno non smentendo – l’ipotesi di consegnare oltre il 10% del debito pubblico nazionale a un singolo investitore straniero senza che si attivi una discussione pubblica sul punto. È appena il caso di ricordare che, al netto della retorica ufficiale e delle relazioni effettivamente amichevoli, la Cina non appartiene al novero degli storici paesi alleati, e che i suoi fondi sovrani non brillano per trasparenza, con la Cic alla 18a posizione, secondo l’autorevole classifica del Linaburg-Maduell Transparency Index, dopo Kazakistan e Trinidad.
Una seconda considerazione riguarda l’economia politica delle relazioni bilaterali italo-cinesi: sia che Pechino accetti eventualmente di iniettare capitali nel Tesoro italiano per motivi politici, sia che scelga di farlo in base a considerazioni strettamente economiche (come tende ad avvenire, a dispetto di quanto si pensi in genere), l’Italia è attesa a una stringente prova di affidabilità. È di importanza critica che misure una tantum ed entrate straordinarie non vengano disperse per coprire spese correnti, ma concorrano a una più ampia e credibile politica di riduzione strutturale del debito, in modo da liberare risorse per gli investimenti che occorrono all’Italia per crescere. Difficile altrimenti attendersi un impegno da parte di Pechino. È legittimo domandarsi quale contropartita Pechino potrebbe richiedere a fronte di una maggiore esposizione al poco rassicurante debito italiano. Nel caso della Grecia, a varie dichiarazioni sull’acquisto di titoli di debito greci da parte della Rpc (su cui non si dispone di cifre, ma parrebbe non si tratti di flussi particolarmente significativi) hanno piuttosto fatto seguito acquisti di pezzi pregiati dell’infrastruttura economica reale del paese, tra cui il porto del Pireo. In quest’ottica possono assumere un altro senso anche le smentite sul caso italiano riportate da Reuters, che parla di discussioni legate all’interesse cinese non tanto per il debito, quanto per il comparto industriale italiano. L’Italia non è nuova a processi di ridimensionamento del proprio tessuto industriale per effetto della mancanza di leadership politica, della debolezza del quadro economico e della scarsa lungimiranza della classe imprenditoriale. L’afflusso di capitali cinesi è uno sviluppo potenzialmente molto promettente, ma necessita di un’accorta regia di politica economica affinché rechi benefici ad ambo le parti.
Da qui la terza riflessione, di carattere strategico: occorre ridurre strutturalmente lo stock di debito pubblico e far sì che i capitali acquisiti mediante la sottoscrizione di titoli di stato non servano soltanto a ripagare debiti pregressi. Solo così si può evitare che il prezzo politico di una forte dipendenza da investimenti cinesi risulti esoso. Consegnare qualcosa come il 12-13% del debito pubblico nazionale a un singolo investitore straniero significa dotarlo di una leva potente nelle relazioni con l’Italia. E l’Italia non “balla da sola”, ma è membro fondatore e paese fondamentale nell’Unione Europea. L’autonomia strategica di attori determinanti come l’Italia è di interesse comunitario.
Forti esposizioni debitorie verso l’estero rispondono a una logica costi-benefici politicamente condivisibile solo se al servizio di una strategia di rilancio dell’economia nazionale. Puntare a un effimero sollievo nel breve periodo, senza compiere scelte di prospettiva, produrrebbe effetti esiziali per il paese, pregiudicandone gli interessi nazionali nel lungo periodo (e non per colpa dei cinesi).
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