Salita di recente al rango di seconda potenza al mondo per consumo di energia, la Cina detiene anche il triste record di primo paese inquinatore. Secondo il Carbon Dioxide Information Analysis Center del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, nel 2007 la Cina ha emesso più di 6,5 miliardi di tonnellate di CO2, ovvero il 22,3% delle emissioni totali a livello planetario. Nello stesso anno gli Stati Uniti “pesavano” sull’equilibrio climatico globale per il 19,9%, mentre l’Unione europea (Ue) si attestava al terzo posto con il 14%, seguita dall’India, con il 5,5%. Non c’è dunque da stupirsi che la Cina sia stata al centro dell’attenzione mondiale durante la Conferenza di Copenhagen del dicembre 2009 e di quella di Cancun nel novembre-dicembre 2010.
A Copenhagen la Cina è stata additata dalla stampa internazionale come principale responsabile del basso profilo dell’accordo finale. Durante la conferenza i rappresentanti cinesi si opposero alla fissazione di qualsiasi obiettivo vincolante di riduzione delle emissioni, non soltanto per il loro paese, ma anche per l’insieme dei paesi industrializzati, anche a costo di sostenere posizioni contraddittorie rispetto a precedenti dichiarazioni della leadership di Pechino, che da tempo sottolinea la necessità di obbligare i paesi sviluppati a impegnarsi in una significativa riduzione delle loro emissioni, in conformità con le loro responsabilità storiche e nel rispetto delle esigenze di sviluppo dei paesi meno avanzati. Questa linea è stata seguita anche a Cancun, dove la delegazione cinese ha rifiutato ogni obiettivo di riduzione obbligatoria delle emissioni, accettando solo che il proprio target unilaterale di riduzione dell’intensità carbonica (definita come quantità media di CO2 necessaria per produrre un’unità percentuale di Pil) del 40-45% entro il 2020 fosse legalmente “ancorato” al testo dell’accordo di Cancun tramite una risoluzione delle Nazioni Unite, con un rinvio della discussione su un nuovo regime per la protezione del clima alla conferenza di Durban, che avrà luogo alla fine di quest’anno.
Per contro, secondo uno studio del Pew Charitable Trusts, nel 2010 la Cina ha investito 54,4 miliardi di dollari Usa nella produzione di energie rinnovabili e in altri progetti “verdi”, aumentando la quota degli investimenti in questo settore del 39% rispetto al 2009. Nello stesso periodo, la Germania ha investito 41 miliardi, mentre il “grande assente” del Protocollo di Kyoto, gli Stati Uniti, ha impegnato 34 miliardi di dollari. Come spiegare questa “svolta verde” della Cina a fronte delle resistenze diplomatiche di Pechino a Copenhagen e Cancun?
Molto si deve alla centralità attribuita alla questione della sicurezza energetica nazionale nell’ambito della politica cinese per il cambiamento climatico adottata nel 2007. L’eccezionale crescita economica degli ultimi trent’anni è all’origine di un massiccio aumento del consumo di risorse energetiche, passato dalle 400 tonnellate equivalenti di petrolio (tep) del 1978 alle 1820 tep nel 2007, con una crescita media annuale del 5,3%. Nella prima parte di questo trentennio, e in particolare durante il periodo di governo di Deng Xiaoping, il paese aveva adottato una politica volta a ridurre il consumo energetico senza compromettere la crescita economica. Questa politica si è in seguito rivelata di notevole successo perché ha permesso al paese di registrare una forte crescita economica senza un aumento proporzionale del consumo energetico, primo caso tra i paesi in via di sviluppo. Tuttavia, nell’ultimo decennio, e in particolare in seguito all’ingresso della Repubblica popolare cinese nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, questo trend positivo non si è mantenuto. La straordinaria crescita media annuale del 10% tra il 2001 e il 2006 è stata accompagnata da un aumento del consumo energetico medio annuale dell’11,4%, frutto di una politica più permissiva in fatto di consumo energetico, ma anche di un netto aumento dell’urbanizzazione e del miglioramento generale delle condizioni di vita della popolazione (con relativo incremento dei consumi). È stata la penuria di risorse energetiche, insieme con il netto aumento del prezzo del petrolio nel 2004, a indurre Pechino a ripensare la strategia economica nazionale: nell’XI Piano quinquennale (2006-2010) il paese si è posto obiettivi ambiziosi, inclusa la riduzione del consumo energetico del 20% e l’aumento della quota di energia ricavata da fonti rinnovabili del 15% entro il 2020.
Una seconda grave preoccupazione è la questione ambientale. Da decenni il paese paga prezzi altissimi per una crescita economica che va sovente a scapito della tutela dell’ambiente: piogge acide, inquinamento atmosferico, inquinamento idrico, aridità e desertificazione hanno un impatto economico sempre più pesante, e presentano conseguenze sociali assai pericolose. Non stupisce, dunque, che il nuovo Piano quinquennale (2011- 2015) sia presentato come “il più verde di tutti i piani quinquennali”. Il governo in particolare ha previsto di perseguire un obiettivo di crescita economica annuo del 7%, riducendo al tempo stesso il consumo energetico del 16% e l’intensità carbonica del 17%. Inoltre, entro il 2015 il governo intende aumentare dell’11,4% la quota destinata alle energie rinnovabili e prevede un aumento della superficie forestale del 21,6%. Ma la principale novità di questo piano è che per la prima volta la lotta al cambiamento climatico viene menzionata come una delle priorità fondamentali del paese ed è posta sullo stesso piano della sicurezza energetica. È dunque chiaro che gli imperativi dello sviluppo sostenibile sono ora a pieno titolo al centro delle preoccupazioni del governo cinese.
Molto probabilmente la Cina non muterà atteggiamento a livello internazionale e difficilmente accetterà obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni, soprattutto se gli Stati Uniti non svolgeranno un ruolo più efficace di leadership in materia. È altamente probabile, invece, che, in coerenza con quanto indicato nel Libro bianco sullo sviluppo pacifico analizzato da Giuseppe Gabusi in questo numero di OrizzonteCina, la Cina continui a perseguire in autonomia e con ambizione crescente una strategia di sviluppo più verde, giacché questa risponde a esigenze interne e non scaturisce da pressioni internazionali che vengono viste come indebite.
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