Lo scorso settembre, a novant’anni dalla fondazione del Partito Comunista Cinese (Pcc), il governo ha pubblicato un nuovo Libro bianco sullo sviluppo pacifico, sulla strategia di politica interna ed estera cinese nel XXI secolo.
Originariamente, la dirigenza cinese utilizzava il termine “pacifica ascesa” (中国和平崛起), coniato da Zhang Bijan, vice- presidente della scuola centrale del Pcc, all’inizio dello scorso decennio, ma in seguito, per fugare i timori di una “minaccia cinese” collegata alla sua “ascesa”, preferì utilizzare e adottare ufficialmente la più neutra e rassicurante espressione “sviluppo pacifico” (中国和平发展, si veda il discorso di Hu Jintao al Boao Forum del 2004). Si vorrebbe, così, rappresentare la sintesi più alta tra le aspirazioni nazionali cinesi e la promozione della pace mondiale, definita come “una scelta strategica compiuta dalla Cina per perseguire la propria modernizzazione, rendersi forte e prospera, e contribuire maggiormente al progresso della civiltà umana”. Nel contesto della globalizzazione economica la Cina “dovrebbe ricercare il mutuo beneficio e lo sviluppo comune”, lavorando con gli altri Paesi “per costruire un mondo armonioso di pace durevole e prosperità condivisa”.
Usando il gergo della dirigenza di Hu Jintao e Wen Jiabao ormai al tramonto, il Libro bianco richiama concetti ben noti: lo “sviluppo scientifico”, inteso come sviluppo che mette al centro il popolo, e che “rispetta e applica le leggi che governano lo sviluppo dell’economia, della società e della natura, focalizzandosi sullo sviluppo e sulla liberazione e promozione delle forze produttive”; lo sviluppo indipendente, aperto e pacifico, che non cerca “aggressione, espansione o egemonia”; lo sviluppo cooperativo e reciprocamente vantaggioso, reso necessario dalla crescente interdipendenza delle nazioni.
Il Libro bianco non manca di elencare i successi economici della Cina, raggiunti proprio grazie all’interazione economica e agli scambi commerciali con le altre nazioni: la produzione economica cinese nel 2010 è stata pari a 5.880 miliardi di dollari Usa, “maggiore di 16 volte rispetto a quella del 1978”, raggiungendo il 9,3% del totale mondiale dall’1,8% del 1978, mentre la percentuale del reddito pro capite cinese sul reddito pro capite medio mondiale è quasi raddoppiata fra il 2005 e il 2010 (dal 24,9% al 46,8%). Nel 2010 la Cina ha realizzato investimenti esteri non-finanziari per 59 miliardi di dollari, pagando 10,6 miliardi di dollari in tasse ai governi stranieri, e impiegando 439.000 lavoratori locali.
La crescita squilibrata dell’economia nazionale ha però avuto i suoi costi, rendendo necessaria la ricerca di uno sviluppo più armonioso, che miri all’innalzamento degli “standard e della qualità della vita del popolo cinese” e la protezione dell’ambiente. Occorre a tal fine “accelerare la transizione del modello di sviluppo attuale” verso il potenziamento della domanda interna, dedicare maggiore attenzione alla modernizzazione agricola, e rivolgere una costante attenzione alla ricerca e sviluppo, per accrescere la qualità della manodopera e fare della Cina “un Paese di innovazione”. La società armoniosa è una società in cui “tutti hanno diritto all’istruzione, al lavoro e alla retribuzione, ai servizi medici e per gli anziani, e alla casa”. Il governo cinese riafferma il suo impegno alla “costruzione della democrazia socialista”: “Continueremo a svolgere elezioni democratiche, procedure decisionali, governance e supervisione nel rispetto della legge”.
Sul fronte economico internazionale, la Cina continua a sostenere quell’apertura degli scambi che le ha permesso di diventare il primo esportatore mondiale di beni, opponendosi con forza al protezionismo e annunciando ufficialmente la graduale attuazione della convertibilità in conto capitale dello yuan, che – secondo recenti fonti di stampa – dovrebbe essere già stata prevista per il 2015.
Nei rapporti politici, la Cina continua a richiamarsi ai cinque principi di coesistenza pacifica già elaborati negli anni ’50, sostenendo che “la politica di difesa è di natura difensiva” (sic). Un “mondo armonioso” si regge sulla “democrazia nelle relazioni internazionali”, ed è in questo contesto che la Cina difende i principi della carta dell’Onu. La Cina “non forma alleanze con nessun altro stato o gruppi di stati” e rivendica il diritto di attuare una politica estera autonoma, a difesa dei propri interessi fondamentali: “la sovranità dello stato, la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale e la riunificazione nazionale, il sistema politico della Cina stabilito dalla Costituzione, la stabilità sociale complessiva, e le basilari misure di salvaguardia per garantire lo sviluppo economico e sociale sostenibile”. Rifiutando “l’egemonismo e la politica di potenza”, la Cina invita gli altri stati ad “abbandonare la mentalità da Guerra fredda” ed a guardare a Pechino come una forza che promuove il mutuo rispetto e la reciproca collaborazione, proponendo anche un “nuovo pensiero” sulla sicurezza per far fronte alle nuove sfide globali. Dal canto suo, la Cina si impegna ad assumere maggiori responsabilità internazionali, commisurate alla propria forza e sulla base del principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”. La rinascita della Cina avviene in continuità, si sostiene, con la storia cinese, dipinta come storia di scambi pacifici con il resto del mondo (si citano la Via della Seta e le esplorazioni dell’ammiraglio Ming Zheng He), nel rispetto delle altre culture, come “un vasto oceano che raccoglie centinaia di fiumi”. Infine, la pace è garantita dal fatto che essa è necessaria per un paese che “resterà in via di sviluppo per molto tempo a venire”: a tal riguardo si sottolinea che nel 2010 il reddito pro capite cinese è di soli 4.400 dollari, al centesimo posto nel mondo.
Come tutti i manifesti, anche questa edizione del Libro bianco non si potrà sottrarre alla prova dei fatti: passare dall’enunciazione di buoni propositi alla loro attuazione concreta non è sempre possibile politicamente. Se l’armonia tra uomo e natura è iscritta nella storia cinese, come è stato possibile distruggere l’ambiente in modo così scriteriato come avvenuto in Cina negli ultimi decenni? Quali sono esattamente le leggi che governano lo sviluppo dell’economia? Ancora: quando la Cina si troverà di fronte a un dilemma, quale principio sceglierà di sacrificare? Che dire infine del rafforzamento militare in atto? Può una potenza “illiberale” sostenere un ordine internazionale liberale?. Ben venga l’apporto intellettuale cinese per dare nuova linfa al dibattito nelle relazioni internazionali: forse questo accenno è uno degli aspetti più interessanti del documento. Il ministro Dai Bingguo, in un recente intervento, ha affermato che il Libro bianco non è stato scritto per ingannare gli stranieri. Il modo migliore per concedergli il credito che chiede è quello di attendere la verifica dei fatti.
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