ThinkINChina è un’“open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.
La “teoria del collasso” è un elemento che ha costantemente accompagnato il dibattito occidentale sulla Cina contemporanea: dalla fondazione della Repubblica popolare cinese (Rpc) all’odierna crisi finanziaria non è mai mancato chi pronosticasse un imminente crollo del “Dragone dai piedi di argilla”. È un riflesso legittimo che svela quanto sia difficile per l’Occidente, specie in un momento di crisi d’identità come quello attuale, accettare che la Cina possa effettivamente produrre una forma solida di modernità alternativa ai suoi modelli presunti “universali”. Da qui l’idiosincrasia per la parola “modello” associata al caso cinese: il sospetto che l’Occidente continua a nutrire per quel sistema politico-istituzionale gli impedisce di elevarlo ad esempio: si teme che esso possa consolidarsi, storicizzarsi e magari persino trasmettersi altrove.
In Cina ovviamente il dibattito assume un carattere diverso. Dopo essersi interrogati per decenni sulle origini della propria debolezza di fronte alle pressioni coloniali straniere, gli intellettuali cinesi sembrano oggi più propensi a discutere delle ragioni del successo del loro paese. Tra le voci più eminenti vi è quella del professor Pan Wei, direttore del Center for Chinese and Global Affairs dell’Università di Pechino, che il 29 novembre scorso ha discusso la sua personale concettualizzazione del “modello cinese” con il pubblico di ThinkINChina.
Pan concentra la sua analisi sull’assetto istituzionale della Rpc. Per troppo tempo, all’estero ma anche in Cina, si è guardato ad esso come una delle ragioni principali dell’arretratezza del paese: Pan ritiene invece che è proprio qui che si nasconde la chiave del successo cinese.
Vi sono, nella lettura di Pan, tre elementi che caratterizzano una civiltà: l’elemento istituzionale, quello materiale e quello spirituale. Il primo serve a regolare le aspirazioni materiali del popolo, mentre il terzo chiede di sacrificarle alla prospettiva di un’illuminazione ultraterrena. La Cina è una delle civiltà più materialiste e meno spirituali della storia ed è per questo che ha dovuto sviluppare un assetto istituzionale adeguato a contenere le spinte dal basso e regolarle in una forma ordinata. Essa è dunque, sottolinea Pan, una “civiltà istituzionale” il cui sistema, grazie alla sua sofisticatezza e alla sua sorprendente flessibilità, è stato capace, come nessun altro, di trasformare il caos in ordine, amministrando per secoli sotto un unico governo un’enorme e variegata popolazione.
Pan parte dall’analisi della società cinese – che egli chiama sheji (社稷) dal nome del tempio sacro dove i pubblici ufficiali e il popolo si riunivano anticamente per celebrare i riti in favore delle messi e dell’armonia sociale – e lo fa analizzando le manifestazioni peculiari dei quattro elementi caratterizzanti di ogni società: l’unità sociale di base, i principi di etica sociale, le forme di organizzazione e le relazioni tra queste e il governo.
In Cina l’unità di base, sia a livello sociale che economico, è sempre stata la famiglia. Nelle campagne la famiglia è ancora l’unità economica principale e nelle città cinesi più del 99% delle aziende registrate sono ancora piccole imprese a carattere familiare: ciò ha creato una società per lo più indifferenziata dove, pur esistendo differenze economiche, non emerge una chiara coscienza di classe. L’etica familiare tradizionale – fondata sul principio di responsabilità anziché sul legalismo del “contratto sociale” – permea l’organizzazione sociale e amministrativa e la modella sulla base di comunità e unità di lavoro (danwei) prive di coscienza di classe. Al posto di una chiara dicotomia tra stato e società, il sistema orizzontale di organizzazione sociale è profondamente interconnesso sin dalla base con la struttura amministrativa verticale. Si ha così un modello “cubico” apparentemente equilibrato.
Lo sheji influenza il sistema di organizzazione della politica interna alla Cina – da Pan inteso come minben (民本), ossia fondato sul popolo – in quattro aree: le idee sul modo di gestione dei rapporti tra il popolo e il governo; il metodo di selezione dei pubblici ufficiali; la natura dei principali organi amministrativi e i meccanismi per la prevenzione e la correzione degli errori dell’amministrazione. L’etica familiare influenza la prima categoria e impone il criterio della responsabilità del governo nei confronti dei cittadini: la sua esistenza ha come unico scopo quello di garantire il benessere per tutti; in caso contrario esso perde la sua funzione e con essa la sua stessa ragion d’essere. Al principio democratico della selezione tramite elezioni, in Cina si è tradizionalmente preferito il principio meritocratico della selezione dei pubblici ufficiali attraverso esami con il risultato di creare un sistema dominato dalle burocrazie che dissolve il pluralismo politico occidentale in un unico gruppo ispirato dal principio di responsabilità – ieri il gruppo governante confuciano, oggi il Partito comunista. In questo sistema il criterio di divisione del lavoro – oggi grazie soprattutto al sistema amministrativo duale partito-stato – dovrebbe surrogare al principio democratico di separazione dei poteri in modo che si possano prevenire e correggere gli errori dell’amministrazione.
Il “minbenismo” – per Pan l’alternativa a ciò che chiama il “democratismo” occidentale – a sua volta si riflette sul sistema di organizzazione economica in quattro grandi aree: i tre tradizionali fattori di produzione – terra, capitale e lavoro –, con l’aggiunta del modello d’impresa. Lo stato controlla la terra, i materiali produttivi, le principali istituzioni finanziarie, le grandi aziende pubbliche per la costruzione delle infrastrutture e la gestione delle materie prime provenienti dall’estero, ma anche le organizzazioni no-profit per la ricerca, l’educazione, la salute, la cultura etc. La gestione dei rapporti di lavoro, i flussi di capitale e le commodities sono invece lasciate a un mercato più libero e per lo più fondato su aziende familiari e collettive. Si tratta di una combinazione, secondo Pan “equilibrata”, di settore statale e non statale – da cui il nome di guomin (国民), traducibile come “stato-popolo”. Una combinazione di “capitalismo” e “socialismo” che, secondo Pan, trova origine nella storia cinese a partire dalla dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.).
Visto nel suo insieme, dunque, il sistema cinese appare strutturato sull’interconnessione di questi tre livelli resa compatta dal principio guida del minbenism. Il suo venir meno determina le fasi di declino ciclico di questo sistema: se il governo si allontana da esso e si concentra solo sul proprio interesse particolare allora i sistemi di selezione meritocratica e i meccanismi di correzione- prevenzione degli errori si dissolvono erodendo le basi di legittimità del gruppo dirigente. Il network amministrativo inizia a scollarsi da quello sociale e il settore pubblico non riesce più a svolgere la sua funzione nell’economia del paese. È a questo punto, precisa Pan, che interviene il popolo rovesciando il gruppo al potere e insediandone uno nuovo il quale, però a sua volta, governerà ancora sulla base del sistema tradizionale.
Sarebbe questo, dunque, il “modello cinese”: una via alternativa alla distinzione occidentale tra stato e società civile, alla dicotomia tra democrazia e autocrazia, e alle concezioni economiche classiche che vedono l’intervento dello stato alternativo a quello del mercato. È un modello che in questi anni ha sorpreso il mondo con la sua capacità di resistenza e adattamento alle trasformazioni traumatiche che una crescita così sostenuta necessariamente comporta. I successi cinesi, tuttavia, parafrasando Zhang Weiwei (张维为), non hanno ancora fatto “collassare la teoria del collasso”: l’Occidente crede ancora che, nonostante le indubbie capacità dei regimi autoritari nel guidare le società attraverso processi di rapida modernizzazione, la democrazia sia ancora il sistema migliore per rispondere alle sfide complesse della modernità.
La Cina deve imparare dagli errori dell’Occidente ed evitare che l’entusiasmo per il proprio successo degeneri in autocelebrazione. Si corre il rischio, altrimenti, come scriveva negli anni ’40 il filosofo Ai Siqi ( 艾思奇), di enfatizzare troppo la specificità della natura cinese e della sua rotta di sviluppo sociale eliminando così ogni spazio per i principi generali di umanità. Per usare le parole pronunciate di recente dallo scrittore cinese Murong Xuecun: “Chi dice che al popolo cinese non deve essere data troppa libertà a causa della situazione “speciale” della Cina è esso stesso fautore di tale situazione “speciale”. Chi dice che la stabilità, non la libertà o i diritti umani, è ciò di cui la Cina ha più bisogno è il primo a contribuire all’instabilità del paese”.
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