Qual è il discrimine tra “storia” e “storie”? Erodoto (V sec. a.C.), antesignano degli storici nella cultura occidentale, è noto per le sue Storie, al plurale, testimonianza di uno sforzo volto a tramandare una serie di vicende, fra cui fatti gloriosi come la guerra dei Greci contro l’Impero Persiano, per preservarle dall’oblio. Le Storie non vogliono presentare una “verità” unitaria: il loro obiettivo è trasmettere ai posteri una serie composita di cronache, leggende e miti.
Il cinese classico non declina i sostantivi per numero. Il titolo del capolavoro di Sima Qian (司马迁,145-90 a.C.), il “padre” della storiografia cinese, è in genere tradotto come Memorie di uno storico (Shiji), ma potrebbe rendersi anche come “Registro della Storia”. Il testo di Sima fissò lo standard ufficiale cui generazioni di storici cinesi si sarebbero conformate nei secoli a venire, argomentando la “gloria” di ogni nuova dinastia sulla base della parabola ciclica di fondazione-ascesa-declino della precedente.
Il termine-concetto 中国的故事, zhongguode gushi (“racconto della Cina”), impostosi all’attenzione di pubblico e studiosi nell’ultimo decennio, va ricondotto a questo contesto. Qui non c’è dubbio sulla distinzione singolare-plurale: il morfema “racconto” (o “storia”, con l’iniziale minuscola) – 故事 gushi – è singolare, sia in senso morfologico, sia concettualmente: indica la produzione di una narrazione mono-dimensionale e costruita verticalmente. Il “racconto della Cina” è una matrice che organizza e fissa la storia della “nuova Cina”. Parafrasando il famoso articolo dell’intellettuale liberale Chu Anping (1909-1966), è la storia del partitoimpero (党天下, dang tianxia).
In questo “racconto”, la Cina è presentata come uno statociviltà unitario e ontogenetico, sviluppatosi secondo una logica lineare e razionale, secondo una meccanica quasi teleologica. Il successo del Partito comunista cinese è chiaramente il punto focale del “racconto” e qualsiasi segno di entropia è espunto dalla narrazione per glorificare la legittima autorità del partito. Il “racconto” è unilaterale anche nel suo situarsi temporalmente a cavallo di “tre presenti”: un passato idealizzato, una contemporaneità tutta protesa in avanti, e l’anticipazione di un futuro promesso.
A fondamento del “racconto” c’è la rappresentazione di uno stato unitario e forte, mitizzato quale erede di un’esperienza di comunità politica che, senza significativa soluzione di continuità, ha insistito per 5.000 anni sul medesimo spazio fisico. Questa condizione di stabilità è al contempo parte costitutiva e finalità propagandistico-pedagogica di un “racconto” che vuole tutelare la “sicurezza culturale” della Repubblica popolare cinese, proiettando al contempo verso l’esterno un’immagine artefatta della Cina quale “paese forte” (强国, qiangguo).
Il fulcro intorno a cui ruota il “racconto” è un enigma irrisolto: “Qual è la logica sottesa all’ordine politico di una comunità umana, e come si può prevenire il disordine?” Laozi ha affrontato queste domande nel VI secolo a.C., sostenendo che più si cerca di generare l’ordine, più si induce disordine, giacché l’ordine non può essere il frutto di un’imposizione.
Nella mia esperienza di studente europeo di storia cinese in Cina negli anni ’80, ricordo che mi veniva chiesto di memorizzare una lista delle dinastie succedutesi al potere, corredate con i nomi ufficiali degli imperatori e le date del loro regno. Questo genere di apprendimento produceva una triplice illusione: la continuità del potere imperiale, la pervasività di un sistema di valori descritto come coeso e unitario all’interno dell’impero, e l’esistenza di una sorta di barriera culturale a protezione dell’universo culturale cinese dalle influenze esterne e dal cambiamento.
All’inizio del XX secolo il crollo della dinastia Qing e la contemporanea ricerca di una via cinese alla modernità portarono all’affermazione di una nuova storiografia, concentrata sulla vicenda nazionale, più che su quella dinastica. Cent’anni dopo, la reinterpretazione di quella sorta di “peccato originale dell’imperialismo” occidentale ai danni della Cina viene utilizzata per giustificare in modo acritico l’assioma dell’“ascesa pacifica” della Cina, legittimando al contempo il discorso egemonico del partito-stato.
In questo senso, il “racconto della Cina” è una categoria epistemologica che omogeneizza e destoricizza la vicenda della Cina, sostituendo la Storia con una narrazione. Tale narrazione nasconde il ben più sofisticato e plurale dialogo transculturale che si va affermando nel mondo sinofono odierno. L’intento di questa rubrica mensile è decostruire questo “racconto della Cina” a partire da quello che chiamiamo provocatoriamente il “lessico popolare”. L’obiettivo è di gettar luce sul “racconto della Cina”, per metterne a nudo, oltre i significati istituzionali, alcuni reconditi elementi costitutivi.
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