[ThinkINChina] La politica estera del Drago bifronte

ThinkINChina è un’“open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.

 

Secondo lo zodiaco cinese il 2012 è l’Anno del Drago, uno dei segni più importanti nella cultura cinese, ma anche uno di quelli che meglio descrivono il rapporto tra la Cina e l’Occidente: simbolo imperiale, creatura divina e di buon auspicio per i cinesi; mostro luciferino e maligno per gli occidentali.

Per la prima volta dopo cinquant’anni, tuttavia, il Drago torna ad essere strettamente associato all’elemento dell’acqua, fondamentale in una cultura tradizionalmente agricola come quella cinese. L’acqua sembra avere un effetto calmante sul temperamento impavido del Drago, ne orienta l’entusiasmo e lo aiuta a rivalutare la situazione facendo un uso saggio dell’arte dell’attesa, spronandolo a concludere un progetto prima di avviarne un altro.

Mentre la Cina torna sotto il segno del Drago, l’Occidente tende a trasformarsi in San Giorgio. È quello che accade oggi in Asia, dove alla rapida crescita dell’influenza regionale cinese, Washington risponde con decisione, politica e militare, ricalibrando il baricentro del suo fronte strategico tra il Medio e l’Estremo Oriente.

Come risponde la Cina al “ritorno” muscolare degli Stati Uniti in Asia? Zhu Feng, docente della School of International Studies della Peking University e ospite di ThinkINChina, distingue tre correnti all’interno del dibattito cinese su questo tema: un primo gruppo tende a interpretare i toni enfatici assunti dall’amministrazione Obama come una mera mossa elettorale per evitare di prestare il fianco alle dure posizioni anti-cinesi dei candidati repubblicani; altri vedono invece palesarsi il vecchio incubo dell’accerchiamento del paese da parte della potenza egemone e spingono verso contromisure decise e robuste; un ultimo gruppo, invece, è più autocritico: propone di cogliere questa offensiva americana come un’occasione per riesaminare la politica estera del paese. Secondo quest’ultima corrente di pensiero – molto popolare tra gli addetti ai lavori e alla quale lo stesso Zhu sembra aderire – l’indecisione e la contraddittorietà della politica estera cinese negli ultimi mesi hanno inasprito i rapporti con i partner della regione.

La ragione di tale indecisione è, secondo Zhu, la scarsa capacità di pianificazione della politica estera del paese, che è dovuta, a sua volta, al clima di transizione politica ai vertici del paese. Da una parte, infatti, l’opinione pubblica cinese, criticando l’arrendevolezza della leadership nei confronti delle mosse di Washington e dei suoi alleati nella regione, spinge la leadership ad alzare i toni della retorica all’interno del paese. Ne è una testimonianza il recente discorso di Hu Jintao agli ufficiali della marina. Dall’altra, questa retorica a uso interno alimenta i sospetti dei paesi limitrofi sulle reali intenzioni di Pechino e viene quindi bilanciata all’esterno da posizioni moderate tese a evitare l’emergere di tensioni e conflitti. La reazione cinese al recente annuncio del rafforzamento della cooperazione militare tra gli Stati Uniti e le Filippine ne è un perfetto esempio: alla moderazione della reazione ufficiale del Ministero degli Esteri cinese ha fatto, infatti, da contraltare la dura richiesta di sanzioni contro il governo filippino da parte della stampa ufficiale.

È impensabile secondo Zhu immaginare una ristrutturazione sostanziale nella politica estera cinese in tempi brevi. L’agenda politica interna, specie in un momento delicato di transizione ai vertici del potere come quello attuale, continuerà a influenzare il modo in cui la Cina opera all’esterno. Allo stesso tempo, tuttavia, il rafforzamento progressivo del ruolo del paese a livello internazionale spinge verso un maggiore attivismo nella regione. Il recente invio di forze di polizia cinese in Thailandia per contribuire al pattugliamento del Mekong contro i trafficanti di droga è un primo indizio di questa lenta transizione di Pechino verso una politica più interventista a livello regionale.

Fino ad oggi la Cina si è mostrata molto riluttante a intervenire all’estero per non alimentare paure nei confronti della sua crescita ma soprattutto per timore di restare ancora una volta vittima delle “interferenze” (ganshe, 干涉) degli stranieri nei propri affari interni. Da qualche mese, tuttavia, in Cina un nuovo termine ispira il dibattito degli esperti su questo tema: si tratta del concetto di “intervento creativo” (chuangzaoxing jieru 创造性介 入) recentemente introdotto dall’eminente studioso della Peking University Wang Yizhou. Secondo la definizione di Wang, l’“intervento creativo” mira a una partecipazione più attiva della Cina alla soluzione dei problemi regionali e internazionali sulla base di un’analisi selettiva degli interessi reali del paese e su un uso saggio e accurato della forza per promuoverli, con un’enfasi maggiore sugli strumenti di soft power e sul rispetto dei criteri di legalità riconosciuti dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite.

La proposta di Wang sembra forse troppo teorica per tradursi in tempi brevi in una concreta strategia di politica estera, eppure essa è indicativa di un fermento che potrebbe produrre i suoi frutti con l’arrivo della quinta generazione ai vertici del partito. Potrebbe essere solo questione di tempo.

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