La crisi economico-finanziaria non ha solo messo sotto pressione la nostra economia, la nostra industria e le finanze pubbliche, ma ci impone anche, a causa della progressiva riduzione di queste ultime, di ripensare il modo in cui concepiamo e attuiamo la nostra politica estera.
A tal proposito, la recente VIII Conferenza degli ambasciatori italiani nel mondo, tenutasi alla Farnesina lo scorso dicembre, ha portato, su impulso del Ministro degli Esteri Giulio Terzi, alla chiara individuazione dei pilastri dell’agenda di politica estera dell’Italia: l’integrazione europea; la solidarietà atlantica; il Mediterraneo in senso lato; la politica dei valori; il rapporto con i grandi Paesi del mondo.
A proposito di questi ultimi, come ha notato il segretario generale della Farnesina, ambasciatore Massolo, sarebbe ormai riduttivo definirli semplicemente come paesi emergenti. Tra di essi, la Cina ha una posizione del tutto particolare in virtù dei risultati raggiunti dopo trenta anni di politica di apertura e riforme che l’hanno portata a prendere il posto che le spetta nel consesso internazionale.
Per dimensione geografica, demografica, economica e finanziaria, la Cina genera oggi sfide e opportunità, offrendo occasioni di cooperazione di natura economico-commerciale, industriale e finanziaria che è possibile cogliere solo se riusciamo a relazionarci con questo grande Paese in maniera unitaria e coerente, evitando di procedere in ordine sparso.
I rapporti dell’Italia con la Cina vanno oltre la rilevantissima sfera economica, e ci proiettano su un dialogo politico, su scambi culturali e su un crescente flusso di visitatori, siano essi turisti o studenti, che da un Paese si recano nell’altro e viceversa. Tutte queste sono componenti fondamentali di quel rapporto di partenariato strategico che l’Italia ha stabilito con la Cina nel maggio del 2004 e che viene alimentato oggi su nuove basi, che fanno tesoro della maggiore apertura della Cina al mondo dal punto di vista economico e socio-culturale.
Oggi, ad esempio, quando pensiamo ai rapporti economici con la Cina, sappiamo di aver superato il tradizionale schema fondato su un vivace interscambio commerciale e su investimenti di alcuni grandi gruppi italiani in Cina. Questo impianto viene infatti completato e arricchito da una inedita propensione agli investimenti cinesi in Italia di natura produttiva, finanziaria o immobiliare, che possono contribuire ad aiutarci a trovare in maniera più rapida una via di uscita dall’attuale crisi.
Si tratta, quindi, di favorire questa riapertura della “Via della seta” nelle due direzioni. Ciò non solo dal punto di vista delle opportunità economiche, ma anche dal punto di vista di un dialogo culturale arricchito, che possa includere un proficuo scambio sui nostri valori e modelli di riferimento.
Il concetto di Cina “mordi e fuggi”, il miraggio di una classe media cinese sempre più numerosa e aperta a uno stile di consumo marcatamente occidentale appartengono a un approccio che produce frutti limitati. Si sente il bisogno di un’evoluzione di tale approccio che ci consenta di comprendere meglio la Cina tanto per avviare un dialogo più solido con le nostre controparti cinesi, che siano istituzionali, accademiche o imprenditoriali, quanto per individuare in maniera sempre più capillare e selettiva le opportunità che la nostra cooperazione bilaterale con questo paese può offrire.
Ricordando due grandi figure storiche italiane che hanno solcato la storia cinese lasciandovi una forte traccia, dovremmo avere l’ambizione di passare da un approccio alla Marco Polo, fondato sulla centralità dell’interscambio commerciale, a un metodo alla Matteo Ricci, che, partendo da una più solida comprensione reciproca dal punto di vista politico e culturale, consenta di sprigionare tutte le potenzialità che la collaborazione con la Cina ci offre: dalla ristrutturazione e dall’incremento quantitativo e qualitativo del nostro interscambio, agli investimenti reciproci nei due Paesi; dall’afflusso massiccio di turisti cinesi in Italia, all’integrazione delle comunità cinesi nel tessuto sociale (e non solo economico) italiano; dall’intensificazione di contatti tra le nostre istituzioni accademiche, alla formazione degli studenti cinesi nei nostri centri di eccellenza e di quelli italiani negli atenei cinesi, il cui prestigio sta cominciando ad assumere una portata sempre più rilevante.
Tale mutazione del nostro approccio alla Cina dovrà essere incoraggiata in maniera attiva dalle istituzioni pubbliche e private italiane, al fine di sviluppare una nuova, articolata e coerente “China Policy” che definisca obiettivi ambiziosi, ma coerenti, che consentano di far coincidere il nostro interesse nazionale con le opportunità che sorgono lungo il percorso di sviluppo cinese.
Si tratta quindi di “pensare la Cina” in maniera più approfondita, facendo in modo che il dinamismo economico cinese e i progressi sociali del Paese possano diventare una variabile da tenere in considerazione nella formulazione delle nostre linee di indirizzo politico, tenendo a mente che una più stretta cooperazione con la Cina può consentirci da una parte di sviluppare una comune agenda globale fondata sulle comunanze di interessi, dall’altra di aggiungere un tassello, quello della cooperazione economicofinanziaria, funzionale agli sforzi intrapresi dal nostro governo per rilanciare la crescita economica in Italia.
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