Quest’anno ricorrono i quarant’anni dalla storica visita del Presidente Usa Richard Nixon a Pechino, culmine di una strategia di engagement la cui urgenza Nixon aveva argomentato fin dal 1967, rilevando su Foreign Affairs come non si potesse permettere che un paese come la Cina rimanesse escluso dalla famiglia delle nazioni a coltivare fantasie, odi e minacce contro i propri vicini. La visita presidenziale fu uno dei capolavori diplomatici dell’allora consigliere per la sicurezza nazionale, Henry Kissinger, e si concluse con la pubblicazione dello storico “Shanghai Communiqué”, che pose le basi per la normalizzazione delle relazioni bilaterali sino-statunitensi.
A quarant’anni di distanza è toccato al vicepresidente della Repubblica popolare cinese (Rpc) Xi Jinping restituire la visita: il contesto storico è molto cambiato, ma il presunto futuro presidente cinese – che dovrebbe entrare in carica nel 2013, dopo essere stato proclamato segretario generale del Partito comunista cinese (Pcc) il prossimo autunno e prima di divenire presidente della Commissione militare centrale come ultimo passaggio della transizione della leadership apicale della Rpc – ha posto l’accento sulla necessità di perseguire una sempre più approfondita relazione tra i due paesi.
Nel 1972 le incipienti relazioni tra Stati Uniti e Cina avevano una dimensione prettamente strategica: facendo perno sull’ormai più che decennale rottura sino-sovietica, la distensione tra il paese-leader del “mondo libero” e il principale antagonista dell’Urss nel blocco socialista metteva Mosca in una condizione di disagio e pressione crescente. All’indomani della repressione di Piazza Tienanmen e della dissoluzione dell’Unione Sovietica – durante quello che è stato chiamato il “momento unipolare” degli Usa – Washington e Pechino interpretarono invece le relazioni bilaterali in chiave principalmente economica. Svanito l’orizzonte del “New World Order” inizialmente teorizzato dal presidente George Bush sr. come obiettivo della riforma dell’architettura internazionale, la Rpc poté continuare a invocare retoricamente un riequilibrio dei rapporti tra paesi avanzati e nazioni in via di sviluppo senza doversi assumere responsabilità politiche particolarmente onerose. Il volume crescente degli scambi commerciali e degli investimenti favorì una massiccia crescita dell’economia statunitense senza che si palesassero rischi di inflazione, mentre il Pil cinese cresceva sino a raggiungere il secondo posto al mondo e una fisionomia tale da far collocare la Rpc tra i paesi a medio reddito (dati Banca mondiale 2011).
Oggi va chiaramente riemergendo una dimensione strategica delle relazioni sino-statunitensi: la presidenza Obama ha perseguito un progressivo disimpegno dal teatro mediorientale, focalizzando energie diplomatiche e dotazioni militari sul teatro dell’Oceano Pacifico. Anche il dibattito negli Stati Uniti rispecchia questa dinamica. Emblematica è una recente presa di posizione di Zbigniew Brzezinski, già consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter tra il 1977 e il 1981: dopo aver proposto l’istituzione di un G-2 informale Cina-Stati Uniti durante una conferenza a Pechino la settimana prima dell’inaugurazione di Obama alla presidenza, nell’ultimo numero di Foreign Affairs Brzezinski parla apertamente di “balancing”, auspicando che Washington persegua un “allargamento dell’Occidente” verso Est, a includere Russia e Turchia, fino a Corea del Sud e Giappone. Questo “maxi-Occidente” dovrebbe contribuire (da una posizione di forza, s’intende) a gestire la complessità del teatro est-asiatico creando condizioni che facilitino l’emergere della Cina al rango di potenza globale.
È una partita delicata: questa strategia che mira a contrastare l’ascesa della Cina può rivelarsi una profezia che si autoavvera, a detrimento della stabilità regionale e globale. Alla luce di ciò è importante che l’amministrazione Obama sia impegnata a coltivare un rapporto personale con il futuro presidente cinese Xi e che questi si sia detto favorevole ad accrescere le relazioni tra le burocrazie militari dei due paesi (tra cui, ad esempio, non esiste una prassi consolidata di “telefono rosso” che eviti l’escalation di potenziali e sempre più verosimili incidenti operativi nel Pacifico occidentale).
L’azione della Casa Bianca è resa meno complicata dal fatto che Xi appartiene in tutti i sensi a una generazione successiva a quella dell’attuale presidente Hu Jintao, oltre ad avere una personalità più spiccata, ancorché fedele all’autocontrollo tipico dei leader cinesi. La sua visita a Washington, che ha un precedente in quella del 2002, era volta a confermare che gli è stato trasferito il più importante portafoglio di politica estera per la Rpc. A differenza di Hu nel 2002, però, Xi aveva già visitato gli Stati Uniti in passato, nel 1985, e, come per gli altri papabili nuovi membri del prossimo Comitato permanente del Politburo – l’organo del Pcc che ha il potere supremo in Cina –, non ha il retroterra culturale tecnico dell’attuale leadership. Dopo aver sperimentato sulla sua pelle di “principe rosso” gli effetti della Rivoluzione culturale, il giovane Xi rientrò dall’esilio nelle campagne per ottenere un dottorato in legge (il padre, Xi Zhongxun, fu vice premier sotto Mao e contribuì a realizzare la prima “zona economica speciale” a Shenzhen su mandato di Deng Xiaoping). Sposato in seconde nozze con una nota cantante pop, ha ora una figlia che studia sotto pseudonimo a Harvard.
La carriera di Xi si è sviluppata nella zona costiera, prima come governatore della provincia del Fujian – cruciale trampolino politico per via delle intense relazioni economiche con Taiwan – poi ai vertici dello Zhejiang, noto per il dinamismo economico del suo ricco tessuto di imprese private. Nel 2007 Xi veniva nominato segretario del Pcc di Shanghai, poco prima di entrare nel Comitato permanente del Politburo dove è stato “allevato” per sostituire Hu Jintao. Noto per l’impermeabilità a scandali e corruzione, la rapida carriera politica di Xi Jinping sembra dovuta più alla qualità della sua azione di governo che a prese di posizione forti nel campo della sicurezza nazionale o della repressione interna, un’altra differenza sostanziale rispetto ai due predecessori, rispettivamente noti per la stretta sulla ribellione in Tibet del 1989 (Hu Jintao) e per aver impedito il ripetersi a Shanghai delle manifestazioni di Piazza Tienanmen nello stesso anno (Jiang Zemin).
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