Il 27 febbraio il presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick, ha presentato a Pechino il nuovo rapporto sulla Cina, dal roboante titolo China 2030: Building a Modern, Harmonious, and Creative High-Income Society. Il voluminoso testo di 468 pagine è frutto della collaborazione della Banca con il Development Research Center (Drc) del Consiglio di Stato, e gode del sostegno esplicito del vice-premier Li Keqiang, che, come è noto, è in predicato di diventare primo ministro dopo il XVIII Congresso del Partito comunista cinese (Pcc) del prossimo ottobre.
Il messaggio che l’approfondita analisi intende veicolare si articola su sei fronti di intervento per garantire alla Cina una crescita sostenibile per i prossimi vent’anni: 1) “attuare le riforme strutturali per rafforzare le fondamenta di un’economia basata sul mercato, attraverso la ridefinizione del ruolo del governo, la riforma e la ristrutturazione delle imprese di stato e delle banche, la promozione della concorrenza, e l’approfondimento delle riforme nei mercati finanziari, della terra e del lavoro”: si tratta in sostanza della proposta di una trasformazione dello stato secondo il modello service-delivery che è ben noto nei paesi di industrializzazione avanzata; 2) “accelerare il passo dell’innovazione e creare un sistema aperto di innovazione” in cui la Cina abbia una partecipazione più attiva all’interno dei network di ricerca e sviluppo globali, creando flussi di scambio mutualmente benefici; 3) “cogliere l’opportunità di abbracciare le tecnologie verdi (go green) attraverso un mix di incentivi di mercato, investimenti pubblici, politiche industriali e sviluppo istituzionale”; 4) “espandere le opportunità e promuovere la sicurezza sociale per tutti, facilitando l’uguale accesso a lavoro, finanza, servizi sociali di qualità e sicurezza sociale con caratteristiche di portabilità”; 5) “rafforzare il sistema fiscale attraverso la mobilizzazione di risorse addizionali, assicurando che i governi locali abbiano adeguati finanziamenti per fare fronte a responsabilità di spesa forti e crescenti”; 6) “ricercare relazioni mutualmente benefiche con il mondo, diventando uno stakeholder proattivo nell’economia mondiale, utilizzando attivamente le istituzioni multilaterali” e contribuendo a dare forma all’agenda della governance globale. In sintesi, le riforme suggerite dal rapporto sono le stesse che da anni sono menzionate nei documenti ufficiali del Pcc e del governo e che richiedono un ruolo più equilibrato tra stato e mercato, più innovazione, una maggiore attenzione alla tutela ambientale e al sistema di sicurezza sociale, un nuovo sistema fiscale che tenga sotto controllo la voracità di spesa delle province e dei governi locali, e l’integrazione pacifica nell’ordine mondiale.
Come ha ricordato Paolo Bozzatta, senior partner di “The European House of Ambrosetti”, in una recente intervista a Radio Radicale, le scelte di fronte a cui si trova la Cina hanno una componente economica (riguardante un modello di stato “che ha fatto il suo tempo”) e una politica (l’ampiezza della riforma). In merito alle privatizzazioni, lo stesso Bozzatta ha ricordato che, sebbene siano evidenti i settori cinesi da liberalizzare (acciaio, automotive, aviation, banche e assicurazioni), non bisogna dimenticare che persino gli Stati Uniti finanziano in maniera consistente (700-800 miliardi di dollari l’anno) le aziende private per scopi di ricerca militare. Ogni stato, insomma, ha le sue aziende strategiche; anzi, pare che il modello del capitalismo di Stato goda di buona salute, a leggere il recente, documentatissimo rapporto della rivista The Economist sull’argomento.
Negli anni Novanta l’ala liberal-riformista della leadership cinese, capitanata soprattutto dal primo ministro dell’epoca Zhu Rongji, utilizzò i negoziati per l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) per acquisire sostegno e prestigio internazionale nella lotta politica interna contro i conservatori, ma anche per addossare alle organizzazioni internazionali la responsabilità di decisioni controverse, come abbondantemente analizzato dalla letteratura scientifica. Non stupisce pertanto che la maggior parte degli osservatori abbia ritenuto di potere intravedere nel timing di presentazione del rapporto (a poco più di sei mesi dal XVIII congresso del Pcc) un segnale lanciato dai leader più aperti al cambiamento del ruolo dello stato in economia per influenzare (o giustificare) le scelte strategiche della dirigenza prossima ventura. Sempre secondo quanto riportato da The Economist, sembra addirittura che nella fase di elaborazione del rapporto il Drc abbia sostenuto posizioni ancora più radicali. È noto infatti che le aziende di stato, rafforzatesi sui mercati globali negli ultimi anni, rappresentino un vested interest in grado di opporsi a riforme che ne ridimensionino il potere di condizionamento dell’economia e della politica del paese. Di certo con la collaborazione alla stesura del rapporto il governo cinese mette a segno un indubbio colpo di immagine di fronte al consenso liberale internazionale, mentre per l’istituzione di Washington il discorso è diverso.
Alla Banca Mondiale bisogna dare atto della profondità e della ricchezza del lavoro di ricerca, frutto di un bagaglio di esperienza e conoscenza maturato nei decenni dai funzionari dell’organizzazione, e forse perciò non si tratta solo di “giochi di parole”, come sostenuto da Geminello Alvi in una recente intervista. Nel discorso ufficiale di presentazione del rapporto, Robert Zoellick afferma che China 2030 non vuole essere un testo prescrittivo, ma soltanto “offrire direzioni, riconoscendo che queste idee necessitano di ulteriore dibattito all’interno della Cina” prima di essere tradotte in politiche e leggi specifiche. Tuttavia, la sensazione è quella di trovarci davanti a un’occasione mancata. Non serve che sia la Banca mondiale a ricordare che la Cina, se non procede a riorientare il suo modello di crescita, rischia “la trappola dei paesi a reddito medio” che dopo un periodo di sviluppo sostenuto sprofondano in un’epoca di stagnazione o di bassa crescita. Secondo le previsioni dello studio, anche in presenza di riforme e senza shock rilevanti il ritmo della crescita cinese è comunque destinato ad attenuarsi, raggiungendo il 5% nel 2026. Né è nuova l’idea che Pechino debba puntare sull’innovazione, sulla costruzione di un efficace sistema di welfare e sull’assunzione di ruoli globali responsabili in conformità al suo nuovo status di superpotenza economica.
Non è un caso che sempre Robert Zoellick, nella suddetta occasione, abbia con evidente entusiasmo affermato: “Vikram Nehru, leader della squadra di lavoro della Banca mondiale, mi ha informato che alla fine, entrambe le squadre cinesi e della Banca mondiale erano veramente diventati un joint team con comuni obiettivi e profonde amicizie”. A questo proposito, occorre ricordare che Vikram Nehru è anche tra gli autori del precedente rapporto China 2020, pubblicato nel 1997 e incentrato sulla necessità per la Cina di aprire nuovi spazi al mercato e di istituire un efficiente sistema di welfare. Conoscevamo già i piani quinquennali, ora abbiamo a disposizione anche un nuovo piano ventennale.
In un articolo pubblicato sul Financial Times, Ian Goldin (ex vice-presidente della Banca), mettendo in guardia contro il rischio di irrilevanza della Banca mondiale nel mutato contesto internazionale del nuovo secolo, sostiene che soltanto Singapore e la Cina hanno le competenze e le professionalità necessarie a formulare visioni strategiche di lungo periodo, che sono invece “assenti persino nelle economie avanzate quali il Regno Unito o gli Stati Uniti”. Forse per leggere analisi e suggerimenti rilevanti, “visionari” e originali, dobbiamo attendere che la Banca collabori con altri governi, in questo momento più bisognosi di aiuto.
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