Viste dall’esterno, le elezioni del 25 marzo del Chief Executive (CE) di Hong Kong appaiono una farsa: un comitato elettorale di 1.193 membri (pari allo 0,07% della popolazione dell’ex-colonia britannica) ha scelto come guida dei sette milioni di abitanti della regione amministrativa speciale di Hong Kong per i prossimi cinque anni il candidato appoggiato da Pechino: Leung Chun-Ying, conosciuto anche come “C.Y.”.
A guardare meglio, però, la democrazia di Hong Kong è sempre più reale, anche se non assume le forme cui siamo abituati in Occidente. Nel luglio 2011 Wang Guangya, direttore dell’ufficio governativo per gli affari di Hong Hong e Macao, aveva pubblicamente indicato le tre caratteristiche del buon candidato per l’incarico: “…il prossimo CE dovrebbe innanzitutto amare tanto la madrepatria quanto Hong Kong. Secondo, dovrebbe possedere capacità di elevato calibro per governare l’economia di Hong Kong e per migliorare lo standard di vita dei suoi cittadini. Terzo, dovrebbe essere largamente accettato dalla popolazione”. Mentre la prima condizione imposta da Pechino è diretta a escludere dai giochi il Partito Democratico e le voci più critiche della società hongkonghina, la seconda e la terza fondono elementi di competenza tecnocratica, Singapore-style, con la necessità di godere di un largo consenso nel popolo, per servirlo, come vuole la tradizionale retorica socialista.
Tra i tre candidati al nastro di partenza, Albert Ho Chun- Yan, sostenuto dal Partito Democratico, non aveva alcuna chance di vittoria. Originariamente, il governo cinese sosteneva Henry Tang Ying-Yen, un alto burocrate dell’amministrazione pubblica, ma Pechino non aveva fatto i conti con l’opinione pubblica. La stampa dell’isola si è scatenata nei mesi scorsi, mettendo in evidenza la scarsa preparazione del candidato, e costringendolo ad ammettere un episodio di abuso edilizio: la costruzione di un appartamento seminterrato, comprensivo di una cantina, sotto un edificio di proprietà della moglie. In un crescendo di lotte senza esclusioni di colpi, condite da accuse reciproche di scandali di ogni genere, Pechino si è convinta a puntare su C.Y., che infatti ha vinto con 689 voti favorevoli su 1.132. Secondo The Economist, il cambiamento di posizione cinese è stato anche l’esito di un contrasto tra la fazione dei “principi rossi”, cui appartiene Xi Jinping, che avrebbe sostenuto Tang, e il gruppo della Lega della Gioventù comunista, che, con l’appoggio di Hu Jintao, avrebbe invece scelto Leung.
Nato nel 1954, figlio di un poliziotto, Leung gode di un relativo consenso tra la gente. Il popolo di Hong Kong lo apprezza soprattutto per le umili origini che lo portarono da bambino a vendere fiori di plastica per integrare il reddito famigliare. Una finta consultazione elettorale online organizzata dall’unità dei sondaggi dell’Università di Hong Kong il 23 e il 24 marzo assegnò a Leung il 18% dei 220.000 voti espressi, lasciando a Tang il 16% dei consensi (significativamente, il 55% votò scheda bianca). Nel comitato elettorale che lo ha eletto, tra le categorie economiche funzionalmente rappresentate gli imprenditori del settore immobiliare sono una quota importante, ma per la prima volta il CE eletto a Hong Kong sembra non godere del loro sostegno. Anzi, Leung, egli stesso un ricco consulente immobiliare, ha affermato di volersi occupare del settore per porre fine al boom dei prezzi degli immobili, che impediscono a larga parte della popolazione, in un crescendo di diseguaglianze sociali, l’acquisto di un’abitazione. Molti osservatori hanno collegato l’elezione di Leung all’arresto per peculato, avvenuto il 29 marzo, dei fratelli Raymond e Thomas Kwok, di una società immobiliare, la Sun Hung Kai Properties, e di un ex-funzionario pubblico, Rafael Hung.
Il compito che attende Leung non è facile: da sinistra, è accusato di essere un uomo al servizio di Pechino (da anni circolano voci su una sua presunta appartenenza al Partito comunista cinese, in violazione della mini-costituzione di Hong Kong che peraltro lo stesso Leung ha contribuito a scrivere) e di non criticare apertamente l’articolo 23 della proposta di legge anti-sovversione contro cui centinaia di migliaia di persone scesero in piazza nel 2003, costringendo il governo a fare retromarcia. Da destra invece, i miliardari a capo dell’economia di Hong Kong vedono in Leung un socialista che esproprierà i terreni per costruire nuove case di edilizia popolare e che limiterà il libero dispiegarsi delle forze di mercato, gloria e vanto dell’ex-colonia britannica.
Per le prossime elezioni del 2017, Pechino ha promesso la concessione di “una qualche forma” di suffragio universale, anche se nessuno si aspetta che il governo centrale sia pronto ad accettare la perdita di controllo del processo di selezione del leader di Hong Kong. Tuttavia le elezioni di quest’anno non hanno rivelato solo profonde fratture all’interno della società e dell’élite della regione speciale, ma anche costretto il governo cinese a un delicato equilibrismo per potere soddisfare le tre condizioni enunciate da Wang Guangya. A cavallo tra il paternalismo del Partito di azione popolare di Singapore e il populismo delle primarie presidenziali americane, con l’aggiunta del socialismo con caratteristiche cinesi, Hong Kong, esperimento nell’esperimento, si sta avviando verso una nuova forma di democrazia, in cui il reale è virtuale, e i sondaggi diventano realtà politica, un processo in cui la persuasione e la retorica, per dirla con Carlo Michelstaedter, avvolgono il sistema politico condizionandone pesantemente lo sviluppo.
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