All’inizio di maggio il Guangzhou Ribao (sito in cinese) ha riportato la notizia che il “Centro per i lavoratori” (dagongzhe zhongxin, 打工者中心), un’organizzazione della società civile basata a Shenzhen, stava per essere sfrattato dalla propria sede. Nonostante nel settembre del 2011 i suoi rappresentanti avessero stipulato un contratto d’affitto di tre anni, il padrone del locale era disposto a pagare una penale di 10.000 yuan (ca. 1.264 € al cambio attuale) pur di liberarsi degli inquilini ed era addirittura arrivato al punto da tagliare acqua e corrente, costringendo questi ultimi a tenere chiuso l’ufficio per un paio di giorni. Interrogato dai giornalisti e dai responsabili del Centro, l’uomo ha spiegato che non si aspettava di ricevere tante pressioni e, naturalmente, si è rifiutato di specificare chi fossero gli autori di tali pressioni.
Non è la prima volta che il Centro, attivo sin dal 2000 nel fornire assistenza legale gratuita a lavoratori coinvolti in casi di infortunio e malattia occupazionale, finisce vittima di vicende del genere. Il caso più celebre è avvenuto nel novembre del 2007, quando Huang Qingnan, il fondatore dell’organizzazione, è stato aggredito da due sconosciuti armati di coltello, subendo danni permanenti alla gamba sinistra. In seguito si è scoperto che si trattava di due sicari inviati dal padrone di una fabbrica dei dintorni e la giustizia cinese ha potuto fare il suo corso. Anche in quell’occasione però non erano mancate le polemiche (sito in cinese), soprattutto a causa dell’eccessiva leggerezza delle condanne, in particolare per il mandante, condannato in appello ad appena due anni di carcere.
Situazioni del genere non possono che suscitare ammirazione per la tenacia di coloro che a proprio rischio e pericolo scelgono di operare in questo settore. Eppure, anche in simili occasioni non ci si può esimere da una riflessione su quello che è il rapporto tra la società civile e il sistema politico nella Repubblica popolare cinese (Rpc) oggi. In particolare, esiste una convinzione diffusa in parte del mondo accademico e in alcuni settori del sindacalismo internazionale che nella Rpc si possa distinguere tra organizzazioni “buone” – le Ong di base impossibilitate ad ottenere una registrazione ufficiale – e organizzazioni “cattive”, le cosiddette “organizzazioni non governative statali” (Government Organized Non-governmental Organization, Gongo), realtà riconosciute ufficialmente che non farebbero altro che perseguire gli interessi dello Stato-Partito. Ma ha davvero senso ragionare in questi termini?
Il campo del lavoro, per quanto marginale, si dimostra un caso-studio particolarmente significativo in questo senso. Al momento attuale, sono appena alcune decine le Ong del lavoro attive in Cina e, contrariamente a quanto avviene in settori politicamente meno sensibili come ad esempio l’ambiente, quasi nessuna di queste è mai riuscita ad ottenere una qualche forma di riconoscimento ufficiale che vada oltre lo status di “entità commerciale”. In molti casi, esse si sono dovute scontrare con la repressione degli apparati di sicurezza dello Stato, manifestatasi in inviti a “bere il tè”, controlli fiscali ad hoc e uffici chiusi d’autorità. Eppure, possiamo da questo dedurre che tali gruppi rappresentano una “minaccia” per il Partito-Stato o attori autonomi che premono per cambiare lo status quo politico e sociale? Siamo forse in presenza di embrioni di sindacalismo indipendente? Non necessariamente.
Tralasciando il fatto che anche tra i ranghi delle Ong del lavoro cinesi si nasconde un buon numero di ciarlatani e personaggi improbabili che manipolano i finanziatori internazionali al fine di ottenere vantaggi economici, non è poi così scontato che le Ong del lavoro in Cina giochino un ruolo positivo nello sviluppo di una coscienza di classe tra i lavoratori cinesi, così come nella costruzione di un’alternativa politica o sociale più equa o democratica. Al contrario, dal momento che esse in genere non fanno altro che promuovere l’idea di diritto e legalità promossa dallo Stato, evitando le dispute collettive per concentrarsi sui casi individuali e cercando di instillare nei lavoratori la consapevolezza del ruolo dello Stato nel mediare e risolvere i problemi sul lavoro, le loro attività spesso finiscono per ottenere l’effetto di rafforzare la fiducia dei lavoratori nello Stato, più che di spingerli sulla strada della solidarietà, una dinamica che è stata sottolineata da Ching Kwan Lee e Yuan Shen in un recente saggio in cui gli autori si spingevano ad etichettare queste organizzazioni come un “apparato anti-solidarietà”.
La stessa Anita Chan, una delle massime esperte nel campo del lavoro in Cina, in una recente intervista ha sottolineato come, contrariamente a quanto si pensa, la consapevolezza del diritto, promossa da queste Ong come dallo Stato, di fatto possa diventare un fattore che ostacola lo sviluppo di una coscienza di classe tra i lavoratori. Lavoratori convinti che l’applicazione delle norme di legge sia la massima rivendicazione possibile non chiederanno mai nulla che vada oltre quanto previsto dai testi giuridici e, nel caso di una violazione dei loro diritti, non chiederanno niente più che una compensazione in accordo con quanto concesso loro dall’alto. La consapevolezza giuridica, quel “risveglio dei diritti” dei lavoratori cinesi che tanto è stato esaltato negli ultimi anni e su cui abbiamo già scritto nel numero precedente di OrizzonteCina, in fondo non è altro che la riaffermazione di un’idea del diritto creata interamente dall’alto dallo Stato, un discorso egemonico che viene perpetuato al fine del mantenimento della stabilità sociale e dello status quo.
Dal momento che ogni tentativo di lanciarsi in attività più aggressive e proattive viene sistematicamente soffocato dalle autorità, le Ong del lavoro finiscono per farsi portavoce di nient’altro che questo discorso egemonico, al punto che molte di esse hanno da tempo rinunciato a sperimentare nuove forme di lotta e partecipazione, ricadendo in un logoro schema di training e pubblicazioni di dubbia utilità, oltre che consulenze legali che sono importanti nella misura in cui gli altri organismi deputati a garantire l’accesso dei lavoratori al diritto falliscono nelle loro funzioni. In quest’ottica, vicende come quella del Centro dei lavoratori di Shenzhen non sono altro che un drammatico segnale alla società civile attiva attorno all’idea del lavoro dignitoso, un avvertimento affinché si rammenti che, per sopravvivere, è necessario stare al proprio posto.
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