Emma Lupano Ho servito il popolo cinese. Media e potere nella Cina di oggi. Prefazione di Marco Del Corona; con un saggio di Alessandra C. Lavagnino. Francesco Brioschi Editore, Milano 2012
È sempre più diffuso il convincimento che, muovendo da posizioni radicalmente opposte, il sistema cinese di autoritarismo “soft” e il sistema liberaldemocratico delle democrazie occidentali – quest’ultimo attualmente sempre più ostaggio di interessi oligarchici e di impulsi populistici – siano destinati a incontrarsi nel XXI secolo a metà strada, contribuendo a creare un assetto politico-istituzionale nuovo e originale anche se dai contorni ancora indefiniti. Così Emma Lupano, la prima giornalista italiana a trascorrere un periodo di lavoro al Quotidiano del Popolo a Pechino, non a caso ricorda che Freedom House assegna ai media di casa nostra lo status di “semiliberi”: se la libertà di stampa è un ingrediente essenziale per il funzionamento corretto della democrazia, allora, fatte le debite proporzioni, non abbiamo alcun titolo per puntare il dito contro la presunta mancanza di libertà di espressione in Cina. La realtà del Paese asiatico è molto più variegata e complessa, e Ho servito il popolo cinese è un’ottima bussola per orientarsi nel mondo cinese dei giornali, delle reti televisive e del web.
Sono lontani gli anni in cui, come ricorda Alessandra C. Lavagnino nel breve saggio finale, esisteva un “controllo forte da parte del potente Dipartimento per la propaganda del Partito comunista, che rivede e verifica capillarmente tutto e tutti attraverso un sistema altamente centralizzato, che ha nell’agenzia Nuova Cina, nei giornali che sono la ‘bocca del partito’, nella radio e nella televisione di Stato le diverse branche di uno stesso unico corpo compatto e solido” (p. 151). Oggi i media cinesi devono invece rispondere a tre padroni: “il partito, che ovviamente non molla la presa; il pubblico, che in veste di consumatore deve essere soddisfatto anche nei suoi gusti più volgari; e la pubblicità commerciale, che apre e chiude la sua borsa a piacere” (p. 30).
Nasce in questo modo un sistema ibrido, sottoposto a censura e autocensura ma disposto anche ad accogliere, negli estesi spazi delle migliaia di pubblicazioni cartacee e online, forme creative di denuncia, pungolo e dissenso. Se da un lato il presidente Hu Jintao nel 2008 sottolinea come sia “cruciale orientare la ‘direzione’ delle notizie e del loro effetto sulla gente” (“corretta guida dell’opinione pubblica”, zhengque yulun daoxiang 正确舆论导向) (p. 51), non si può più dare per scontata l’attenzione del pubblico verso l’ufficialità noiosa – seppure riverniciata secondo il modello dei tg americani – delle news trasmesse dai canali di Stato: anche per questo nel 2003 viene coniato per i giornalisti lo slogan delle “tre vicinanze” (san tiejin 三贴近), ossia “vicinanza alla realtà, vicinanza alla vita e vicinanza alle masse” (p. 53). Nelle redazioni, quindi, si svolge quotidianamente una partita con il potere, in cui i direttori, i giornalisti e i bloggers più audaci cercano di spostare in avanti il confine tra ciò che è concesso e ciò che non è possibile scrivere, mentre il regime osserva, tollera, sfrutta o reprime a seconda della convenienza politica del momento e del grado di rischio per la stabilità del sistema: “controllo e apertura coesistono, si intrecciano e si confrontano, senza che nessuna delle due tendenze abbia sancito la propria vittoria definitiva” (p. 146) . L’autrice non nasconde la sua simpatia per queste figure professionali, che, a differenza dei dissidenti assai noti e amati in Occidente ma pressoché sconosciuti al pubblico cinese come Ai Weiwei e Liu Xiaobo, assumono notevoli rischi pur di svolgere un’attività investigativa che consenta alla Cina un’evoluzione verso un contesto sociale in cui le angherie del potere e le ingiustizie siano rese pubbliche, e perciò sempre meno diffuse e tollerate.
Uno strumento molto utilizzato a questo scopo è il “commento di attualità”, sviluppato come una vera e propria forma d’arte da un esercito di commentatori freelance che preferiscono godere di maggiore indipendenza rispetto ai colleghi regolarmente assunti dalle società editoriali. Ovviamente, la loro autonomia è una “libertà condizionata” (p. 88), poiché non è comunque consentito scrivere di argomenti tabù, ma rimane il fatto che questi commenti rappresentano ormai le pagine più lette dei giornali e dei siti internet, obbligati a reggere la concorrenza sul mercato.
Il panorama mediatico cinese viene così ritratto come un immenso laboratorio, in cui propaganda, interessi pubblici, messaggi commerciali (più o meno volgari), denuncie, si combinano a volte in un ammasso indistinguibile per chi non abbia la pazienza di cercare di selezionare le prospettive, i piani di lettura, a volte anche le folgoranti intuizioni. Come sempre, anche per i media occidentali è molto più semplice “sbattere il mostro in prima pagina”, e se il mostro è un censore rosso con la stella comunista in fronte, perché perdere tempo con analisi approfondite e chiaroscuri difficili da comprendere?
Perciò la lettura del libro di Emma Lupano, oltre ad essere assai piacevole, è illuminante anche per i non specialisti, grazie anche agli aneddoti di vita vissuta e alle citazioni di interviste a molti protagonisti, anche se una maggiore sistematicità avrebbe aiutato a mettere più ordine nella gran mole di informazioni che si trovano nel testo. Un solo appunto: i paragrafi sull’esperienza di giornalista accreditata alle Olimpiadi di Pechino del 2008 giungono davvero fuori tempo massimo.
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