[LA RECENSIONE] Il XXI secolo appartiene alla Cina? Conversazione sul futuro del mondo

Niall Ferguson, Henry Kissinger, David Dakou Li, Fareed Zakaria Il XXI secolo appartiene alla Cina? Conversazione sul futuro del mondo Milano, Mondadori, 2012

 

I Munk Debates sono conversazioni aperte al pubblico che si svolgono a Toronto, in Canada, con l’obiettivo di esporre il pubblico canadese “alle menti più brillanti del nostro tempo per farle intervenire su alcune delle questioni cruciali che il mondo si trova ad affrontare” (p.VII). Il format dell’iniziativa prevede lo schieramento degli oratori su posizioni contrapposte: al termine del dibattito viene chiesto al pubblico quale di esse sia risultata la più convincente. L’agile volumetto che proponiamo questo mese è la trascrizione del Munk Debate del 17 giugno 2011, quando 2.700 persone in un auditorio (e migliaia online) hanno assistito alla discussione tra Niall Ferguson, storico di Harvard, David Dakou Li, economista dell’Università Tsinghua di Pechino e membro della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, Fareed Zakaria, uno dei commentatori più influenti negli USA, e Henry Kissinger (che non ha bisogno di presentazioni) al suo primo – incredibile ma vero! – dibattito pubblico.

Il XXI secolo appartiene alla Cina? Henry Kissinger e Fareed Zakaria propendono per il no: la Cina continuerà a doversi occupare (e preoccupare) delle questioni di stabilità interna e di tenuta del regime, e non avrà energie e risorse sufficienti per proporsi come egemone globale. Inoltre, il tanto conclamato soft power cinese si sta rivelando assolutamente inefficace davanti alle sfide strategiche che si profilano in Asia. Niall Ferguson e David Li sono invece convinti che la Cina sia ormai un attore mondiale, in grado di esercitare influenza in tutti i continenti, proponendosi come modello alternativo soprattutto per i paesi in via di sviluppo.

Ferguson, ad esempio, sottolinea come durante la crisi globale degli anni recenti la Cina abbia mantenuto un comportamento responsabile, tipico di una potenza finanziaria globale: “la Cina rappresenta (…) il più paziente investitore a lungo termine a sostegno dell’Europa e del governo statunitense” (p. 32). Tuttavia, Zakaria ribatte a quest’argomentazione tipicamente liberale ricordando che “in tutto il corso della storia, i popoli si sono fatti la guerra (…) pur essendo interdipendenti sul piano economico” (ibi).

Le posizioni, contrapposte a uso del format, sono in realtà spesso più sfumate. Li ad esempio non arriva a sostenere che la Cina conquisterà il mondo, ma afferma che l’esperienza cinese già rivela che gli Stati Uniti non sono l’unico game in town. Esilarante è l’economista sul diverso modello di innovazione che si sta affermando in Cina: “i prodotti più innovativi e rivoluzionari continueranno ad arrivare dagli Stati Uniti, dove individui molto creativi, a volte al limite dello squilibrio mentale, possono esprimersi liberamente e affermarsi. In Cina non c’è probabilmente un terreno fertile per questo tipo di persone così radicalmente innovatrici ed eccentriche. (…) Gli Stati Uniti e la Cina rappresentano due estremi che altri paesi possono studiare” (p. 84). Kissinger, indossando i panni del padre nobile, concede invece che occorre “comprendere che ci stiamo avviando verso un nuovo ordine mondiale che pone questioni di portata globale, e che questo ordine non può essere gestito usando le nostre normali categorie di pensiero” (pp. 54-55).

Forse il limite del dibattito (anche se comprensibile per esigenze giornalistiche) è proprio rappresentato dalla domanda posta in modo semplicistico al pubblico. Sappiamo infatti che il XXI secolo non apparterrà alla Cina nella stessa misura in cui la seconda metà del XX secolo è appartenuta agli Stati Uniti. Allora, il divario di risorse economiche e militari tra Washington e il resto del mondo era incolmabile (e una parte del globo non era integrata nell’economia mondiale). Nel XXI secolo gli Stati Uniti non declineranno in misura così radicale da lasciare il campo solo a Pechino, senza contare che l’emergente mondo multipolare sarà composto da molti altri stati, non necessariamente schierati con una delle due grandi potenze. In tal senso, il XXI secolo già appartiene alla Cina, ma il condominio è affollato di nuovi e vecchi inquilini, con cui bisogna condividere gli spazi comuni e le spese di amministrazione. Inoltre, di quale Cina stiamo parlando? E se la Cina stesse già metabolizzando ampi caratteri dell’esperienza capitalistica americana? Il paese è in rapidissima trasformazione, e quando avrete finito di leggere questa recensione la Cina non sarà più la stessa rispetto al momento in cui avete preso in mano questo numero di OrizzonteCina. Questa in fondo è la vera domanda che bisognerebbe porsi: sarà in grado la Cina del XXI secolo di pagare i costi della co-gestione dell’ordine mondiale? Riusciranno gli Stati Uniti a gestire una parziale rinuncia al proprio potere egemonico senza dovere affrontare ulteriori conflitti (come si chiede Henry Kissinger a pagina 55)? E soprattutto, riusciranno le opinioni pubbliche dei due paesi a capire la posta in gioco, senza diventare preda di isterie collettive? A tratti si ha la sensazione che questo tipo di dibattiti sia pensato per rassicurare il pubblico nordamericano di fronte all’ascesa cinese, e si può immaginare il risultato del sondaggio presso il pubblico al termine della serata.

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