“Per il governo della Repubblica popolare cinese (Rpc) il Medioriente è tradizionalmente una piattaforma d’elezione per misurare e sviluppare la propria politica estera e le relazioni bilaterali con le principali potenze mondiali, a partire dagli Stati Uniti.” Questo il precipitato di una recente conferenza promossa dall’Asian Studies Center della Boğaziçi University di Istanbul, che focalizza una delle dinamiche più salienti oggi in atto nel vicinato strategico dell’Unione europea e, in particolare, dell’Italia: il crescere del peso specifico di Pechino nell’area che la diplomazia cinese chiama Western Asia, Northern Africa.
Mentre all’orizzonte non sembra esserci traccia di quell’iniziativa politica di portata strategica che l’Unione europea si auto-candida a interpretare in qualità di (premiata) “potenza civile”, il sistema regionale mediorientale si va riconfigurando per l’ennesima volta, quasi un decennio dopo la trasformazione imposta dalla 3a Guerra del Golfo (2003) e a vent’anni dal conflitto del 1991. Ciascuno di questi frangenti ha costituito per la Rpc un’occasione per ridefinire il proprio profilo quale membro della comunità internazionale. Nel 1990 l’astensione sulla Risoluzione 678 del Consiglio di Sicurezza Onu agevolò l’uscita di Pechino dall’isolamento internazionale determinato dalla repressione di Piazza Tienanmen; nel 2003 l’opposizione all’intervento voluto da George W. Bush consentì alla diplomazia cinese di accreditare la Rpc come stakeholder responsabile di un ordine internazionale violato dal suo stesso creatore; oggi il triplo veto (2011 e 2012) opposto alle risoluzioni concernenti la situazione in Siria segna l’indisponibilità cinese al ripetersi della dinamica libica (cambio di regime mascherato da intervento umanitario) e la determinazione a non accettare interferenze in equilibri regionali che interessano sempre più direttamente Pechino (oltre a Mosca, con cui la leadership cinese desidera mantenere relazioni cordiali).
In presenza di una guerra civile drammatica in sé, oltre che critica per la sicurezza e l’economia regionale e globale, un aspetto che colpisce è la scarsa maturità delle relazioni che legano la Rpc alla Turchia, attore fondamentale in Asia occidentale e uno dei più attivi sul dossier siriano. È stupefacente come retaggi di carattere storico vizino ancora profondamente i rapporti bilaterali sino-turchi, facendo da sfondo al persistere di importanti barriere cognitive, oggi aggravate da un forte squilibrio economico.
L’attenzione di osservatori e policy-makers cinesi e turchi appare tuttora drenata da un diffuso nervosismo intorno alla provincia cinese dello Xinjiang (Regione autonoma uigura dello Xinjiang), dove la convivenza tra una popolazione locale prevalentemente musulmana e di matrice Türk – gli Uiguri – con un numero sempre crescente di cinesi han genera tensioni sin dal XIX secolo, sfociando ancor oggi in tentativi violenti di riportare in auge le fugaci esperienze delle repubbliche indipendenti del Turkestan orientale. Sebbene le autorità turche riconoscano in modo inequivoco la sovranità di Pechino sulla “nuova frontiera” (xinjiang, 新疆, vocabolo il cui etimo implica significativamente la difesa armata di un territorio di confine), da parte cinese resta il sospetto che Ankara non abbia abbandonato un’antica vocazione al pan-turchismo. In quest’ottica venne letto il commento sopra le righe del primo ministro turco dinanzi alla repressione seguita ai disordini a sfondo etnico del 2009, quando Erdogan parlò pubblicamente di “genocidio”. La leadership cinese è particolarmente sensibile in questo quadrante, dove l’integrità territoriale della Rpc – un “core interest” del Partito-Stato, come rimarcato ufficialmente nel Libro bianco sullo sviluppo pacifico del 2011 – è ritenuta per certi versi più problematica di quanto non accada nel caso dei dossier Taiwan e Tibet.
Il portato di questo genere di frizioni si riflette nel campo delle percezioni, determinando un atteggiamento sfavorevole alla Turchia presso un campione pari al 67,5% degli intervistati cinesi, secondo un recente sondaggio. Stato e popolo turco vengono associati primariamente al “problema” uiguro, ma anche all’appartenenza ad un’alleanza ostile (la NATO), e ad un atteggiamento filo-occidentale esemplificato dalla domanda di adesione turca all’Unione europea. Per contro, la Turchia presenta il secondo minor tasso di fiducia nella Rpc tra i paesi del G20 (dopo il Giappone), secondo il Pew Global Attitudes project, pur differenziandosi da USA e UE quanto all’importanza attribuita all’Asia quale orizzonte-chiave per l’interesse nazionale, secondo il rapporto Transatlantic Trends 2012. L’arretratezza degli studi sulla Cina contemporanea in Turchia, così come un livello ancora minimo di scambio culturale e persino turistico (dati recenti parlano di meno di 100.000 presenze cinesi in Turchia all’anno) non consentono di superare la sorta di barriera cognitiva che separa le due società. In questo senso, quella di un asse tra i due estremi del continente asiatico (una nuova “Via della seta” in senso geopolitico, ma anche infrastrutturale) in contrapposizione al “pivot” statunitense nel Pacifico occidentale – o anche soltanto a freno dell’attivismo di certi paesi del Golfo nello scacchiere mediterraneo – appare una prospettiva utopica, ancorché promossa da vari studiosi cinesi.
Tassello fondamentale del partenariato immaginato da tali studiosi sarebbe, naturalmente, lo sviluppo economico dello Xinjiang medesimo, a tutto beneficio della stabilizzazione dell’occidente della Rpc. Gli investitori turchi che Pechino vorrebbe trainassero lo sviluppo della provincia, tuttavia, reagiscono con irritazione all’atteggiamento delle autorità cinesi, che sembrano volerne canalizzare gli interessi lontano dalle più promettenti province orientali. A livello aggregato il quadro appare ancor più preoccupante: è improbabile, infatti, che una maggiore presenza turca in Xinjiang possa ridurre in modo rilevante l’abnorme deficit commerciale di Ankara: se nel 2011 l’interscambio bilaterale ha toccato i 24 miliardi di dollari USA, il deficit turco è stato pari a 19,2 miliardi (dati del Ministero dell’Economia turco). In presenza di uno stock minimo di investimenti reciproci (appena 50 milioni di dollari USA investiti da parte cinese in Turchia nel periodo 2002-2011, e 7 milioni nella direzione opposta), i fattori frenanti in caso di pulsioni protezionistiche sono talmente scarsi da destare preoccupazione. C’è da augurarsi che anche i poco noti squilibri tra paesi emergenti possano essere arginati in modo lungimirante: l’economia globale non può permettersi di rischiare spirali protezionistiche proprio a partire dalle due economie del G20 che hanno segnato la maggior crescita nell’ultimo trimestre (Ocse).
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