La Cina ha contribuito a un’operazione di peacekeeping per la prima volta nel 1990, inviando cinque osservatori militari nell’ambito della United Nations Truce Supervision Organization (Untso). Da allora, il paese è intervenuto in svariate missioni internazionali – ad esempio in Cambogia, Costa d’Avorio, Congo, Haiti, Libano, Liberia e Sudan – sempre ed esclusivamente sotto egida Onu e sempre e soltanto impiegando unità militari non deputate al combattimento: medici, ingegneri, logisti e polizia armata. Il crescente interesse della Cina per le questioni di stabilità internazionale è stato testimoniato anche dalla creazione di istituzioni dedicate al peacekeeping presso il Ministero della difesa nazionale (un ufficio nel 2001 e un centro di addestramento nel 2009). Come citato nel Libro bianco sulla difesa nazionale, al 31 dicembre 2010 il paese ha impiegato 17.390 uomini in 19 missioni, mentre 1.995 uomini sono risultati impegnati in 9 missioni nel corso del solo 2010.
Da parte di una potenza che si dichiara disposta ad assumersi le proprie responsabilità in ambito internazionale in un mondo che desidera multipolare si tratta di un livello di impegno che non dovrebbe stupire. Al contrario: questi sforzi sono relativamente modesti e aperti ad ampi margini di miglioramento, sia quantitativo che qualitativo. Sul fronte numerico vale la pena fare una comparazione per rendere l’idea. L’Italia – che a pieno titolo può essere considerata una media potenza a livello internazionale, e che di certo non è interessata alla proiezione di potenza per mezzo dello strumento armato – al marzo 2011 aveva 7.165 uomini impiegati in 29 missioni, più di tre volte il numero messo in campo dalla Cina nello stesso periodo. Si tratta di un divario ancor più significativo se si pensa che le forze armate cinesi superano numericamente i due milioni di unità contro le duecentomila di quelle italiane.
Sul fronte della qualità, il possibile cambiamento afferisce invece all’impiego di unità combattenti, tradizionalmente non adoperate dalla Cina nelle operazioni internazionali. In questo senso però, qualche trasformazione ha già iniziato ad avere luogo. Infatti, nel gennaio 2012 la Cina ha dispiegato per la prima volta un’unità di questo genere nell’ambito della missione Onu in Sud Sudan. Si tratta di un plotone di fanteria deputato a garantire la sicurezza del resto del contingente cinese, costituito da tre unità del genio e una sanitaria (350 uomini in tutto). Tale missione non è l’unica testimonianza di una potenziale apertura all’impiego di personale armato. La Cina ha infatti inviato 18 navi nel golfo di Aden, in funzione antipirateria, associandovi un contingente di quasi 500 uomini delle forze speciali. Naturalmente quest’ultima è una missione che esula dal canone classico del peacekeeping per avvicinarsi invece a mansioni di garanzia armata della stabilità internazionale: proprio il tipo di funzione nei confronti della quale spesso la Cina ha manifestato diffidenza, soprattutto a causa dell’accostamento tra queste e le operazioni di regime-change operate dall’Occidente nel corso dell’ultimo decennio. Quali sviluppi possiamo dunque attenderci dalla Cina dei prossimi anni? Naturalmente, un maggiore coinvolgimento cinese nelle operazioni di stabilità internazionali non sarebbe scevro da costi materiali e anche politici, a partire dai timori generati da un nuovo slancio militare del colosso asiatico tanto nella sfera interna quanto in quella internazionale. Tuttavia, almeno sulla carta, esistono anche sostanziali incentivi per un allargamento del livello di impegno militare cinese internazionale, anche al di fuori della canonica cornice del peacekeeping in ambito Onu. Da un lato il distribuirsi e l’approfondirsi degli interessi materiali in paesi caratterizzati da gravi problemi di stabilità e sicurezza potrebbe spingere la Cina ad assumersi in maniera più diretta alcune responsabilità: del resto sia la missione in Sud Sudan che quella nel golfo di Aden sono interpretabili secondo questo schema. Anche ragioni di prestigio internazionale potrebbero spingere in tal senso: il desiderio di rimarcare il proprio status (peraltro in un momento in cui l’impegno della comunità internazionale in tema di stabilizzazione sta toccando il minimo storico da dieci anni a questa parte), la rivalità storica col Giappone (da tempo impegnato in una “normalizzazione” del proprio apparato militare, inclusa la possibilità di partecipare a missioni multinazionali), e – perché no – anche la possibilità di influenzare in modo più proattivo la definizione degli strumenti legittimi di mantenimento della stabilità internazionale, al di là della sempre valida – ma dopo la vicenda siriana oramai un po’ screditata – arma del veto.
Si tratta di sviluppi plausibili? La leadership emersa dal XVIII congresso del Partito comunista cinese appare orientata alla cautela, e pertanto è difficile immaginare sostanziali cambi di rotta da parte di Pechino, che obblighino a rivedere la canonica narrativa incentrata sul rispetto della sovranità a tutti i costi. Tuttavia, non è detto che il crescente divario tra gli interessi da difendere da un lato e i mezzi necessari per difenderli dall’altro, nonché tra le dichiarazioni in termini di status e di responsabilità da un lato e l’effettivo impegno internazionale dall’altro non obblighino la Cina nel medio periodo a cambiare – volente o nolente – il proprio orientamento.
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